Rimini è un appuntamento fisso, per i penalisti italiani. Da diversi anni, l’Unione Camere penali l’ha eletto a luogo d’incontro innanzitutto con i colleghi più giovani, ai quali tiene a trasmettere la propria visione politica e la passione dell’impegno per la giustizia. «Ma nell’Open day che si terrà domani e sabato nel Palacongressi della città romagnola, potremo ben mostrare ai colleghi come il cerchio si sia ormai chiuso proprio nel modo in cui avevamo previsto», spiega Gian Domenico Caiazza, che dell’Ucpi è il presidente. «All’enorme potere politico della magistratura penale fa da contrappunto il potere dei media, che ha paradossalmente sopravanzato il primo. Basta leggere le ricostruzioni con cui Repubblica attribuisce ad altri giornali una campagna contro l’ex procuratore di Roma Pignatone. È un meccanismo terribile che si spezza solo se si esce dall’ipocrisia. Innanzitutto da quella dell’azione penale obbligatoria».

L’obbligatorietà dell’azione penale è la chiave dell’uragano che si è abbattuto sulla magistratura e sul Csm?

Assolutamente sì. Spiegarlo non è così difficile. Basta partire dalla prima delle grandi ipocrisie. Le cene in cui alcuni togati hanno discusso del futuro procuratore di Roma con esponenti politici: una patologia, è evidente, che non va certo sminuita, ma è ipocrita sorprendersi. Nel senso che il capo di una Procura, in particolare se si tratta della Procura di Roma, ha un potere il cui peso è politico e, soprattutto, dirompente.

I pm di Roma hanno la titolarità sulla gran parte delle indagini che riguardano la politica.

Appunto. Basta un loro avviso di garanzia per far cadere un governo. È un potere immenso. E l’idea che il Csm possa scegliere di volta in volta chi esercita tale smisurato potere senza valutazioni di tipo politico significa prendersi in giro.

Il superpotere patologico spiega la patologia delle cene con Lotti?

Il tema non è l’incontro con i politici in sé, né l’eventuale caso di corruzione, che andrà accertato nelle sedi dovute. Il punto è la natura del potere di fatto detenuto da un magistrato come il procuratore di Roma. Se la si vuole comprendere, bisogna chiedersi come viene esercitata l’azione penale: è davvero obbligatoria e quindi neutra, o presuppone valutazioni sulle priorità da seguire?

La seconda, evidentemente.

E allora, se è una valutazione discrezionale, è inevitabilmente anche politica. La domanda successiva è: tale discrezionalità, dal risvolto chiaramente politico, può mai essere esercitata da chi non è chiamato a rispondere delle proprie scelte? Evidentemente no, ed ecco perché nel ddl costituzionale sulla separazione delle carriere, per il quale l’Unione Camere penali ha raccolto le firme e che ora è in Parlamento, prevede anche un temperamento dell’azione penale. Resta obbligatoria ma è esercitata nei modi e nei casi previsti dalla legge. Quindi è il Parlamento a indicare delle priorità generali, giacché solo il Parlamento risponde di tale delicatissima scelta davanti all’elettorato. Il capo di una Procura potrà discostarsi, con una motivazione chiara, dai criteri, certo: ma quei criteri sarebbero stabiliti per legge, e le leggi spettano alle Camere.

Le notizie sull’indagine di Perugia possono bastare a convincere gli stessi magistrati che anche il processo mediatico è una patologia?

Me lo auguro. Mi auguro che la stessa opinione pubblica cominci a comprenderlo. Abbiano scritto in un documento della giunta Ucpi che forse ora anche la magistratura si renderà conto di cosa voglia dire essere travolti dalle notizie su un’indagine, persino quando non si è indagati, come nel caso dei quattro togati del Csm additati per le cene con Lotti. Ecco, quei quattro magistrati hanno discusso di un incarico politico, perché la nomina del procuratore di Roma tale è. E allora: separiamo la carriera dei pm da quella dei giudici, innanzitutto, che vanno sottratti allo strapotere dei colleghi inquirenti. Ai vertici dell’Anm, solo per fare un esempio, nel 99 per cento dei casi c’è un pm, non un magistrato giudicante: l’attuale presidente Grasso è una clamorosa eccezione. Ancora: potrei scherzare sul fatto che l’altro intervento del ddl sulla separazione delle carriere costa a noi penalisti l’accusa di voler assoggettare i pm alla politica, laddove sono i magistrati a incontrare i politici per scegliere il procuratore di Roma. Ma non è questo che mi interessa. È evidente che, in virtù della natura politica di quella carica, si è arrivarti a discuterne con esponenti dei partiti, come peraltro si è fatto anche in passato. Chi guida quell’ufficio decide se dare priorità alle indagini su una forza politica o su un’altra. Il re insomma è nudo. Bisogna ricondurlo a una dinamica compatibile con l’equilibrio tra i poteri, che ora non esiste.

Tra l’altro, la stessa opinione pubblica potrebbe non fidarsi più delle notizie sulle inchieste a carico di politici, ora che le sono state mostrate le patologie dei metodi di scelta di chi quelle indagini le conduce.

Dipenderà da quanto anche noi saremo capaci di far comprendere fino in fondo gli aspetti patologici del sistema. Che riguardano innanzitutto il sofisticato rapporto tra chi esercita l’azione penale e i giornali. Ora i quotidiani si accusano tra loro di aver agito in modo da screditare l’uno o l’altro magistrato. E alcune ricostruzioni mostrano come il singolo quotidiano avesse in effetti il potere di delegittimare un procuratore o un aspirante tale, o comunque di intervenire pesantemente nelle dinamiche per la sua scelta. Ed è chiaro come l’interesse dei giornali, di schieramenti anche opposti, derivi proprio dalla natura politica del potere che sarà esercitato dal magistrato sul quale ricadrà quella scelta. È chiarissimo. E la vicenda di queste ore è importantissima. Ci ricorda che un sistema democratico funziona se chi fa scelte politiche decisive per la vita di un Paese poi ne risponde. Cosa che oggi non avviene assolutamente per il capo di una Procura.