Quando il pool Mani pulite era la squadra più popolare e amata d’Italia Antonio Di Pietro e Gherardo Colombo ne incarnavano le polarità opposte. Impulsivo, istrionico e pittoresco il primo, riflessivo, schivo e un po’ nell’ombra il secondo. Solo a vederli passare nei corridoi del palazzo di giustizia di Milano, seguiti da una ressa di cronisti senza precedenti, si coglievano al volo i segni delle diverse biografie.

Da una parte l’ex ragazzo di Montenero di Bisaccia emigrato in Germania, poi poliziotto, approdato infine in una magistratura ancora marcata da una precisa impronta di classe, che lo considerava quasi un intruso. Dall’altro il ragazzo di buona famiglia di Briosco, con alle spalle il percorso canonico: liceo classico, laurea in Giurisprudenza alla Cattolica, cursus honorum in magistratura. Di Pietro, con la sua inflessione dialettale che aveva saputo rovesciare trasformando una potenziale debolezza in marchio personale, sembrava un alto funzionario di polizia. Colombo, spesso in maglietta, sempre spettinato, una specie di eterno studente. Ma non di quelli sprovveduti. Quando nella primavera del 1992 il procuratore Borrelli decise di affiancarlo a Di Pietro nell’interrogatorio di Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio, aveva già alle spalle un’inchiesta di quelle che fanno storia: la P2 e il delitto Ambrosoli.

Chiesa era il capo di una fune che i magistrati milanesi avrebbero seguito sino ad addentrarsi nel labirinto di Tangentopoli. Se nel pool c’erano divisioni nessuno se ne accorse. Ma la differenza di approccio era lo stesso chiara. Di Pietro era un mastino che dava la caccia ai presunti colpevoli usando ogni mezzo, inclusa una notevole astuzia, ma senza preoccuparsi troppo di scandagliare il fenomeno in profondità.

Colombo già alla fine del ‘ 92 aveva capito che di un fenomeno così esteso e pervasivo non sarebbe stato possibile venirne davvero a capo solo con gli arresti e i processi. Fu lui a insistere per la proposta di ' soluzione politica' avanzata poi dall’intero pool: una sorta di condono in cambio dell’ammissione di responsabilità. Sarebbe stata un modo per far emergere anche tutto quel versante del sistema delle tangenti che, come avrebbe poi ammesso lo stesso Di Pietro, rimase sostanzialmente impunito, il fronte non dei corrotti ma dei corruttori.

Vent’anni dopo, tracciando un bilancio, Colombo era più che mai convinto che quelle indagini non fossero servite a molto «dal punto di vista giudiziario» e che anzi fossero state «paradossalmente un danno».

Mani Pulite, a suo parere, era stata sì fondamentale ma su un altro fronte, quello dell’informazione, perché aveva messo a nudo e reso noto al Paese l’esistenza di un vero e proprio sistema.

Dopo Tangentopoli Colombo ha continuato per oltre un decennio a investigare sulla corruzione. Si è occupato del processo Imi/ Sir, del lodo Mondadori e dell’intervento di Previti in quella vicenda, affrontata corrompendo i giudici. Nel 2005 è diventato Consigliere presso la Cassazione ma meno di due anni dopo, con quasi 15 anni di anticipo sulla pensione, ha scelto di lasciare la magistratura. Forse lo avrebbe fatto anche prima se non avesse scelto di aspettare l’esito di tutti i casi in cui era stato coinvolto, o per procedimenti disciplinari o per imputazioni varie. Ne è uscito sempre assolto e anzi uno di questi processi, la causa per calunnia intentata contro Licio Gelli, gli ha fruttato un cospicuo risarcimento in oro da parte dell’ex venerabile subito devoluto alle nonne argentine di Plaza de Mayo e ai familiari delle vittime della strage di Bologna.

Colombo ha lasciato la toga, non ha dimenticato i nodi della Giustizia. Ha continuato a occuparsene scrivendo libri, incontrando gli studenti di innumerevoli scuole, e il tema è rimasto al centro delle sue riflessioni anche quando è diventato presidente della Garzanti e poi membro del cda Rai. Perché il giudice Colombo, a differenza di troppi altri magistrati, non ha mai inteso la giustizia solo come un’eterna caccia al colpevole. Si è interrogato invece sulla funzione della pena, sulla cultura diffusa che vede nella pena una sorta di vendetta.

Le conclusioni a cui è arrivato sono radicali: «Ero uno che mandava le persone in prigione convinto che fosse utile. Ma da oltre 15 anni ho iniziato un percorso che mi porta a ritenere errata quella convinzione. I penitenziari sono inefficaci, se non dannosi per la società. Anziché aumentare la sicurezza, la diminuiscono». Alla concezione attuale della giustizia, che considera «retributiva», basata cioè sul retribuire i danneggiati con la sofferenza di chi ha provocato il danno, suggerisce di sostituire una visione invece «riparativa», fondata sul compensare la vittima e allo stesso tempo sul rendere il colpevole cosciente della propria responsabilità. Idee che, nell’Italia quale emerge dalle reazioni alla sentenza della Cassazione su Riina, devono sembrare più o meno come deliri.

La differenza emersa nel corso di Cartabianca tra lui e l’ex compagno di pool Di Pietro a proposito dell’eventuale concezione dei domiciliari a Riina non è tra due diverse idee del rispetto delle garanzie e tanto meno tra ' buonismo' e ' severità' ma tra due concezioni della giustizia. In termini etici e forse ancora di più di efficacia reale.