La Procura di Roma non ha intenzione di “mollare” e rimane convinta che il capitano del Noe Scafarto abbia agito per coinvolgere, tramite Tiziano Renzi, il figlio Matteo nell’indagine “Consip”. I pm sono infatti convinti che Scafarto, che martedì scorso era stato reintegrato in servizio, avrebbe provato a nascondere alcune prove agli inquirenti disinstallando whatsapp per evitare che potessero essere ricostruite le conversazioni ed individuati coloro che avevano violato il segreto d’ufficio.

Sempre per i pm romani l’ufficiale aveva cercato di incastrare Tiziano Renzi con una intercettazione taroccata, attribuendogli una frase in realtà mai pronunciata. Oltre a ciò, il militare aveva trasmesso le risultanze investigative di cui era in possesso al colonnello Sergio De Caprio, alias “capitano Ultimo”, suo ex comandante al Noe prima di essere trasferito all’Aise, il servizio segreto civile.

Nessun complotto e nessun depistaggio. Giampaolo Scafarto commise solo «errori involontari». Il Tribunale del riesame di Roma, relatore il presidente Bruno Azzolini, ha dunque smontato in tredici pagine di provvedimento il teorema accusatorio della Procura di Roma.

Secondo il collegio, il quarantenne capitano del Noe, avrebbe agito senza dolo e senza secondi fini. L’aggiunto Paolo Ielo e il pm Mario Palazzi avevano indagato lo scorso anno Scafarto per depistaggio, falso e rivelazione del segreto, chiedendo ed ottenendo dal gip Gaspare Sturzo la sua sospensione dal servizio per un anno.

L’ufficiale, per i pm della Capitale, aveva cercato di incastrare il padre dell’ex premier Matteo Renzi, nell’ambito dell’indagine “Consip”, con una intercettazione taroccata, attribuendogli una frase in realtà mai pronunciata. Oltre a ciò, sempre Scafarto, aveva trasmesso le risultanze investigative di cui era in possesso al colonnello Sergio De Caprio, alias “capitano Ultimo”, suo ex comandante al Noe prima di essere trasferito all’Aise, il servizio segreto civile.

Un modus operandi, quello del capitano del Noe che nel frattempo era stato anche promosso al grado di maggiore e che ieri è tornato in servizio, sostan- zialmente corretto ed esente da censure per i magistrati del riesame. Scrivono, infatti, i giudici che «l’esperienza giudiziaria permette quotidianamente di riscontrare errori ed omissioni nelle informative senza che ciò determini l’iniziativa penale del pm». Tradotto, la polizia giudiziaria è solita commettere errori di vario genere, come quello in questione di attribuire una frase penalmente rilevante ad una persona diversa da quella che l’ha effettivamente pronunciata, ma tutto rientrerebbe nella normale dinamica investigativa.

Peccato, però, che questo “errore” abbia causato una mezza crisi di Governo mettendo in seria difficoltà per mesi il segretario del primo partito italiano, con ripercussioni a livello internazionale stante il clamore mediatico che l’indagine “Consip” aveva assunto. Ma non solo. L’ex comandante generale dei carabinieri Tullio Del Sette, indagato a sua volta per rivelazione del segreto, ha molto probabilmente visto sfumare nelle scorse settimane la proroga nell’incarico proprio per il coinvolgimento nell’indagine.

Oltre agli «errori involontari», anche l’inoltro dell’informativa di reato al personale dei servizi segreti in via «informale» rientrerebbe di fatto in una non meglio specificata prassi non sanzionabile. La trasmissione della comunicazione di notizia di reato, scrivono i giudici, è un «fatto oggettivo» ma desta «perplessità per quel che riguarda la configurabilità del reato sotto il profilo della sussistenza del concreto pericolo per la Pubblica amministrazione attesa la qualità dei soggetti ai quali sono stati trasmessi gli atti». Tradotto, nessuna violazione del segreto istruttorio se la polizia giudiziaria divulga agli agenti segreti, durante le indagini preliminari, atti che per legge dovrebbero essere coperti dal riserbo in quanto tale personale non utilizzerebbe in maniera scorretta le informazioni ricevute.

La Procura di Roma non ha intenzione di “mollare” e rimane convinta che Scafarto abbia agito per coinvolgere, tramite Tiziano Renzi, il figlio Matteo nell’indagine “Consip”, cercando di nascondere poi le prove disinstallando whatsapp per evitare che potessero essere ricostruite le conversazioni ed individuati coloro che avevano violato il segreto d’ufficio rivelando atti dell’indagini. A tal proposito, i pm titolari del fascicolo hanno già fatto sapere di voler impugnare in Cassazione il provvedimento del Riesame.