Nel 1989, con l’entrata in vigore del codice di procedura penale ispirato a un modello tendenzialmente accusatorio, si sperava che la cultura che aveva generato e sostenuto il rito inquisitorio di stampo autoritario fosse definitivamente abbandonata. Le nuove regole processuali erano, infatti, frutto di una stagione in cui ideali liberali e democratici in materia di giustizia avevano trovato fecondo terreno nella società, nella cultura, nell’accademia e nella politica. Si riteneva superato e dannoso per l’accertamento della verità processuale un sistema che affidava al P.M. o, nella migliore delle ipotesi, al Giudice Istruttore il monopolio della prova che, poi, transitava a dibattimento sostanzialmente immodificabile, senza che la difesa potesse effettivamente incidere su di un prodotto preconfezionato. Il nuovo modello alterava tutto questo: le indagini svolte dal P.M. dovevano essere limitate nel tempo e funzionali alla mera raccolta di elementi – e non prove – per verificare la sostenibilità dell’accusa in un eventuale dibattimento, dove le parti, nel contraddittorio, avrebbero effettivamente partecipato alla formazione della prova. Il contraddittorio, dunque, veniva eletto, a ragione, come il metodo scientifico più affidabile per evitare errori e rendere giustizia. Il sistema portava ad una evidente perdita di potere complessivo della Magistratura che, tra l’altro, non apprezzava intrusioni della difesa nella formazione della prova. Sia chiaro: il codice del 1989 non corrisponde ad un modello accusatorio puro, tanto che, ad esempio, vi sono norme come l’art. 506 che, attribuendo al Giudice la possibilità di indicare alle parti ulteriori temi di prova e porre domande ai testimoni, sottrae alle parti l’esclusiva dell’iniziativa e dell’esame e del controesame, o come l’art. 507 che consente al Giudice di integrare i mezzi di prova delle parti.Nonostante il nuovo codice conservasse tracce inquisitorie era risultato, da subito, indigesto a gran parte della magistratura che aveva iniziato ad avversarlo, evidenziando rischi catastrofici, quanto inesistenti, circa la impossibilità di celebrare alcuni processi, in particolare quelli di criminalità organizzata, pericolo, poi, smentito dai fatti. La totale e continua ostilità della Magistratura, oltre che nella perdita di potere, trovava e trova fondamento anche nella circostanza che, l’adesione ad un modello processuale accusatorio, dovrebbe portare, come inevitabile conseguenza, strutturali riforme ordinamentali, coerenti al nuovo sistema. A sottolineare l’esigenza di un radicale cambiamento, erano stati anche alcuni autorevoli, quanto isolati Magistrati, come Giovanni Falcone che, in un congegno organizzato nel 1988 dalla Camera Penale Veneziana, dal Titolo “Un nuovo codice per una nuova giustizia” rilevò la necessità di confrontarsi con alcuni temi ormai ineludibili come quello della terzietà del Giudice e della obbligatorietà dell’azione penale: «Altri interventi, però, sono necessari sul piano legislativo e di ciò le forze politiche e sociali cominciano ad acquisire piena consapevolezza. Un primo passo è stato mosso con la riforma dell’ordinamento giudiziario nei punti direttamente collegati all’introduzione del nuovo codice, ma altri e più incisivi interventi, prima o poi, occorrerà effettuare e le stesse necessità della prassi le renderanno indispensabili. In primo luogo, bisognerà valutare se e in quali limiti istituti come l’obbligatorietà dell’azione penale, l’unicità delle carriere dei magistrati inquirenti e giudicanti e la stessa appartenenza del P.M. all’ordine giudiziario siano compatibili con un nuovo sistema. Mi rendo conto di accennare a tempi di grave portata e sui cui ancora l’analisi è appena agli inizi, ma trattasi di questioni aperte che non verranno risolte semplicemente esorcizzandole o, peggio, muovendo da posizioni preconcette o corporative». La minaccia di sgradite quanto ineludibili riforme ordinamentali è risultata intollerabile per una parte consistente della Magistratura che ha, in ogni modo, manifestato il proprio dissenso rispetto al nuovo codice di rito. La politica, all’epoca, pur sempre attratta dall’idea di essere succube della Magistratura, non era stata ancora toccata dal ciclone di mani pulite e sembrò opporre una certa resistenza alla opposizione della Magistratura, resistenza che venne a cessare, per l’appunto, con la crisi della prima repubblica, travolta dagli scandali e dai processi. L’inizio del periodo di mani pulite coincise anche con le sanguinose e dolorose stragi criminali mafiose del 1992 che offrirono spunto per la controriforma e per le note sentenze demolitrici della Corte Costituzionale, con la contestuale introduzione di norme che consacravano il cd. doppio binario per alcuni reati, regole che poi hanno trovato applicazione per ogni tipo di processo. La politica, solo nel 1999 e grazie soprattutto all’UCPI, modificò l’art. 111 della Costituzione, introducendo i principi del giusto processo, finalmente aderendo alla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo che già prevedeva all’art. 6 il diritto ad un processo equo. Da allora, sul codice di rito, interventi altalenanti quanto disomogenei, frutto, non di una visione organica di una politica giudiziaria, ma di contingenze, paure e convenienze elettorali, senza che l’art. 111 della Costituzione abbia trovato piena applicazione. Anzi: negli ultimi anni si è registrato un attacco senza precedenti a principi e valori costituzionali quali presunzione di innocenza, diritto di difesa, funzione risocializzante della pena. Il periodo più buio sembra alle spalle. La scellerata, quanto scriteriata riforma Bonafede della prescrizione è stata superata, così come neutralizzate altre norme che avrebbero mortificato non solo il codice di rito, ma anche principi costituzionali. Certo quella che ha preso il nome dell’attuale Ministra della Giustizia, dovuta anche alla inderogabile necessità di presentare in Europa un pacchetto di investimenti e riforme, poteva essere migliore, ma è stata determinata dal compromesso politico tra forze ideologicamente contrapposte, il che, in materia di giustizia, difficilmente produce risultati totalmente soddisfacenti. Quello che si deve evitare è: lo svilimento del contraddittorio dibattimentale; difendere il principio di oralità che è regola del processo penale; evitare che il processo diventi una punizione per chi ritiene di affrontarlo. Il sistema accusatorio, o quel che resta di esso, deve essere difeso, ed anzi occorre rilanciare, sostenendo con forza i principi costituzionali del giusto processo, ribadendo, come l’UCPI sta facendo, l’ineludibilità della riforma della separazione delle carriere, perché un processo penale governato dalla cultura inquisitoria, il cui scopo improprio sia quello di combattere fenomeni criminali e di creare consenso attorno all’attività di questo o quel Magistrato e di governare, in questo modo, i mutamenti sociali determina, tra l’altro, inevitabilmente, uno squilibrio tra i poteri dello Stato. (*past president UCPI)