A distanza di un mese dall’uccisione del terrorista Anis Amri facciamo il punto con il sottosegretario alla Giustizia Cosimo Ferri sul fenomeno della radicalizzazione nelle carceri.

Signor sottosegretario, Amri dopo era stato nei Cie e in carcere girava libero in Europa. Che provvedimenti aveva preso all’epoca l’Italia?

Sbarcato a Lampedusa Amri ha scontato quattro anni in carcere - prima a Catania e poi a Palermo - per avere partecipato ad una violenta rivolta nel centro di accoglienza migranti. Quando è uscito, il decreto di espulsione non è stato eseguito a causa di ritardi procedurali delle Autorità tunisine. L’Italia è stata obbligata a lasciarlo andare, non prima però di avere inserito i suoi dati nel database europeo. Questo è un aspetto molto attuale, ossia quello di comporre il controllo della situazione degli irregolari con l’accoglienza dei rifugiati mediante accordi con i paesi di provenienza.

Quali sono le politiche del Governo per arginare il fenomeno della radicalizzazione nelle carceri?

La radicalizzazione è un feno- meno complesso. La battaglia contro il jihadismo non può risolversi solo nella pur necessaria attività di intelligence e di polizia. Senza una adeguata prevenzione gli sforzi del nostro, come degli altri Governi, può essere vano. L’obiettivo è quello di contrastare la radicalizzazione, islamista e non solo, nelle scuole, nei luoghi di lavoro e nelle carceri. Le misure sono volte a prevenire i fenomeni di radicalizzazione e di diffusione dell’estremismo religioso, oltre a provvedere al recupero umano, sociale, culturale e professionale di soggetti già coinvolti in fenomeni di radicalizzazione. Tale azione culturale e sociale di prevenzione si associa con quella di tipo repressivo, già intrapresa dal Governo e dal Parlamento con la legge 153 del 2016 ( che ha ratificato cinque strumenti internazionali in materia di contrasto al terrorismo), e con il decreto legge 7/ 2015, che ha previsto nuove figure criminose, ha aumentato le condotte incriminabili ed ha anticipato la soglia di punibilità: una fra tutte, quella di propaganda di viaggi in territorio estero con scopi di terrorismo.

Come si concilia il tema del rispetto dei diritti con la radicalizzazione?

Il diritto alla professione della propria fede religiosa anche all’interno del carcere non solo va rispettato, ma è uno strumento “preventivo” proprio dei fenomeni di radicalizzazione: garantire la libertà di culto è un passaggio chiave per spuntare le ali alla propaganda radicale.

In molte carceri, ad esempio in Sardegna, mancano interpreti e mediatori. Non è grave?

Favorire i colloqui dei detenuti con gli educatori e gli assistenti sociali, incentivare i corsi di alfabetizzazione, scolastici e professionali, favorire opportunità di fruizione di permessi premio e di misure alternative, oltre facilitare i rapporti con le Autorità consolari, è senza dubbio la strada maestra per prevenire la fabbricazione di nuovi terroristi in casa. Su questo solco il Ministero si è mosso con gli Stati Generali sulla esecuzione penale che hanno dedicato più tavoli di lavoro su questi temi. Stiamo lavorando per risolvere anche il tema, fondamentale, del personale specializzato.

Esistono studi su quanto la difficoltà comunicativa incida sulla radicalizzazione?

Consiglio la lettura dell’ottimo saggio di Lorenzo Vidino “Il Jihadismo autoctono in Italia. Nascita, sviluppo e dinamiche di radicalizzazione”. Questo lavoro fornisce una panoramica completa sulla questione, miscelando questioni sociali e teorie sociologiche con le esperienze vissute da giovani immigrati in Italia di seconda o terza generazione convertiti all’islam radicale.

Le risultano casi di detenuti italiani che si sono converti all’Islam radicale?

Nel 2016 si è stimato che sui 18.091 stranieri detenuti 11.029 provengono da Paesi tradizionalmente di religione musulmana, di cui 7.646 sono praticanti e 20 i convertiti all’Islam durante la detenzione; 34 sono i soggetti che sono stati poi espulsi per acclarata adesione alle ideologie estremiste.

Il fenomeno della radicalizzazione, all’estero, è diffuso da anni. Esistono dei protocolli sul punto fra gli Stati europei e l’Italia?

La Conferenza dei Direttori delle Amministrazioni penitenziarie dei 47 Stati membri del Consiglio d’Europa nel novembre del 2012 ha sollecitato i responsabili politici delle Amministrazioni della Giustizia sulla necessità di sforzi specifici per il trattamento dei detenuti stranieri che includano anche risorse umane e materiali e una adeguata formazione professionale del personale. E’ stata sottolineata la necessità di facilitare le relazioni dei detenuti stranieri con i loro congiunti e con l’ambiente esterno e, in particolare, la necessità di un impegno a migliorare il loro reinserimento sociale attraverso contatti con organismi appropriati. Non da ultimo, la necessità di garantire ai detenuti stranieri una adeguata informazione, nella loro lingua, sui loro diritti e doveri in ambito carcerario e sulla possibilità di ottenere il trasferimento verso altro Stato. E’ in atto un monitoraggio ad opera del Dap all’interno delle carceri, che suddivide gli individui “sospetti” in tre gruppi: monitorati, attenzionati e segnalati.

I magistrati di sorveglianza come interagiscono con questo tipo di detenuti?

I magistrati di sorveglianza prestano particolare attenzione a questa tipologia di detenuti, ad esempio, evitando di mettere insieme reclusi con storie criminali troppo omogenee. Lo sforzo è rompere la barriera che divide i ristretti a rischio radicalizzazione da quelli ‘ comuni’ e tentare, quindi, di offrire anche ai primi attività di trattamento significative. Ovviamente, per i più pericolosi resta applicabile il regime carcerario previsto dall’art. 41 bis, pensato per i capi mafia ed esteso anche al terrorismo internazionale.