SI CHIUDE IL PRIMO GRADO DI GIUDIZIO DEL PROCESSO “CENTODIECI E LODE”: 60 GLI IMPUTATI

Venti le condanne nel processo che aveva scosso alle fondamenta l’Ateneo calabrese. Durante l’inchiesta la Procura di Cosenza aveva contestato la legittimità di 72 lauree

La notizia aveva sollevato un vero e proprio polverone. Facendo tremare un centinaio di studenti, con la paura di vedersi sfilare tra le mani la laurea tanto faticosamente conquistata, e gettando sull’Università della Calabria, eccellenza del sud, ombre e sospetti. Ma dieci anni dopo l’inchiesta “Centodieci e lode”, che scoperchiò un presunto giro di falsi esami all’Unical, sono venti le condanne inflitte dal giudice Urania Granata. Quaranta, dunque, gli imputati assolti, dopo decine e decine di testimonianze in aula di docenti e studenti, tutor e amministrativisti, con in mezzo anche il trasferimento del processo da Catanzaro a Cosenza e, dunque, un azzeramento del dibattimento, che ha portato alla conclusione del solo primo grado di giudizio a due lustri dallo scandalo.

A finire a giudizio erano state, in tutto, 60 persone. Il sostituto procuratore della Repubblica, Antonio Tridico, contestava a vario titolo i reati di falsità materiale e ideologica e introduzione abusiva nel sistema informatico dell’Ateneo. Tutto era partito dalla denuncia del preside della facoltà di Lettere, Raffaele Perrelli, che durante una seduta di laurea non riconobbe come sua la firma apposta su uno degli statini inseriti nel fascicolo di un candidato. Da lì l’analisi di migliaia di documenti, dai quali emersero anche firme di docenti in pensione o studenti da record capaci di sostenere sette esami in un giorno. E la terribile conclusione: 72 lauree in lettere e filosofia, secondo l’accusa, erano da annullare perché conseguite attraverso falsi esami. Nel corso delle indagini - che hanno passato al setaccio il periodo tra il 2004 e il 2011 - era stato sequestrato un ingente quantitativo di materiale e compiute numerose consulenze grafologiche che secondo la procura avvaloravano l’ipotesi di un complesso sistema di «collaborazione» per «agevolare» l'iter accademico di numerosi studenti.

L'accusa aveva chiesto la condanna per circa 50 persone, invocando pene comprese fra i tre e i quattro anni di reclusione. Ma le condanne, anche per via della prescrizione di parte dei reati contestati, sono state più basse: da uno a due anni, con sospensione della pena e risarcimento all'ateneo, da calcolare in separata sede. Al centro dei sospetti della procura tre membri della segreteria studenti e una tutor, accusati di aver manomesso gli statini caricando sui piani di studio degli studenti coinvolti esami mai sostenuti. Per il giudice, però, quelle tre funzionarie sono innocenti. Si tratta di Fortunata Candido, per la quale erano stati chiesti quattro anni, Paola Volpe e Valeria De Bonis, nei confronti delle quali era stata invece chiesta l'assoluzione. Condannata a tre anni e nove mesi, invece, la tutor Angela Magarò. Durante un dibattimento durato cinque anni, le accuse si sono ridimensionate: alcuni statini ritenuti inesistenti o falsi dall’accusa sono stati, infatti, ritrovati e prodotti in aula. Mentre per alcuni degli studenti imputati - i cui nomi, nonostante la loro incensuratezza, finirono sui giornali in un lungo elenco a favore di gogna - sono stati gli stessi docenti a ricordare che l’esame era stato effettivamente svolto, esaltando, in alcuni casi, proprio la preparazione di coloro che erano finiti, loro malgrado, nel tritacarne. Nel caso della funzionaria Candido, invece, è stato dimostrato come, nel periodo contestato, la stessa si trovasse in malattia, lontana dalla sede di lavoro: qualcuno aveva dunque usato le sue credenziali per introdursi nel sistema informatico.

Tra gli imputati, in uno stralcio del processo, c’era anche il giornalista Pino Nano, caporedattore centrale dell’Agenzia Nazionale della Tgr a Roma e già caporedattore della sede Rai della Calabria. Per lui, difeso dagli avvocati Nicola Carratelli e Amedeo Bianco, in una prima fase era stato dichiarato prescritto il reato di accesso abusivo al sistema informatico, finendo a giudizio solo per l’accusa di falso. Ma anche quest’ultima si dissolse alla prova dell’aula: Nano, nel 2017, fu infatti assolto - su richiesta del pm - perché il fatto non sussiste, assieme all'ex presidente del corso di laurea in Scienze della comunicazione, Daniele Gambarara, tra i più accreditati semiologi italiani, che decise di rinunciare alla prescrizione. La carriera di Nano risentì molto del peso mediatico dell’inchiesta. E anche il pm Tridico, durante la propria requisitoria, riconobbe la necessità di restituire al giornalista dignità e onorabilità. Una storia emblematica, la sua: Nano scoprì infatti di essere indagato da un giornale, che ne pubblicò il nome un mese prima che gli venisse notificato l’avviso di conclusione delle indagini. Secondo l’accusa, Gambarara, in qualità di presidente, avrebbe falsificato un verbale del Consiglio del corso di laurea sul trasferimento del giornalista da un’altra Università, convalidando in maniera illegittima esami già sostenuti nel primo ateneo, mentre lo stesso avrebbe attestato di aver superato gli esami da sostenere presso l’Unical. Accuse rivelatesi, però, infondate.