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ingiuste detenzioni
«Una storiella di diritti e giochetti». L’avvocato Nicola Canestrini, del foro di Rovereto, è letteralmente infuriato. Avvilito, verrebbe da dire, di fronte ad un caso tanto semplice quanto assurdo da raccontare. La storia è quella di un 31enne arrestato per detenzione ai fini di spaccio di 30 grammi lordi di cocaina, il cui principio attivo risulta ancora sconosciuto. Una storia comune, una di quelle che affollano quotidianamente le aule di tribunale, se non fosse per un particolare: la contestazione è cambiata dopo l’udienza di convalida, di fatto impedendo al legale di poter difendere il proprio assistito adeguatamente. Una svista, un semplice errore materiale - questa la spiegazione del giudice -, ma tale da condizionare il diritto di difesa di un uomo che così è rimasto in carcere. «Secondo il codice procedurale, l‘arresto deve essere convalidato da un giudice entro quattro giorni. In questo periodo, l’accusa deve anche decidere se chiedere una misura cautelare, cioè se ritiene che ci sono oltre gravi indizi di colpevolezza, anche pericolo di fuga o di reiterazione del reato o di inquinamento probatorio - racconta Canestrini in un post-sfogo su Facebook -. La Procura chiede dunque il carcere per l’arrestato, ma contesta il fatto di lieve entità (articolo 73 testo unico stupefacenti, comma 5)». A seguito della sentenza dellla Corte costituzionale che dichiarò illegittime le previsioni della legge Fini-Giovanardi, infatti, il legislatore modificò, tra le altre cose, i limiti edittali contemplati dal comma 5, riconoscendo lo stesso articolo quale fattispecie autonoma di reato, modificando il precedente dl 146 del 2013 che lo concepiva quale mera circostanza attenuante. Le modifiche portarono ad una riduzione della pena e così si è passati dalla reclusione da uno a cinque anni alla reclusione da sei mesi a quattro anni, se la condotta criminosa, per i mezzi, le modalità o le circostanze ovvero per la quantità e qualità delle sostanze, è di lieve entità. La modifica incise anche sulle misure precautelari e cautelari, data l’impossibilità di procedere all’arresto obbligatorio in flagranza e/o di disporre la custodia cautelare in carcere. Da qui la chiara strategia difensiva di Canestrini, che con una breve memoria esplicativa - dopo aver visitato l’uomo in carcere di domenica e aver rassicurato la famiglia - si è opposto alla richiesta di convalida davanti al giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Rovereto. Insomma, un caso semplice e subito chiuso, normalmente. Ma non nel caso in questione: «Incredibilmente il giudice, dopo aver interloquito con il pm dopo l’udienza (dato che in udienza in carcere il pm non si è presentato), espone la strabiliante tesi che la contestazione del comma 5 era un “errore materiale”, che al posto del “5” doveva leggersi “1”, dato che il comma 1 prevede lo spaccio grave che sorregge arresto e misura cautelare carceraria», afferma Canestrini. Un errore rettificato dal pm solo successivamente all’udienza di convalida e che dunque ha impedito allo stesso difensore di preparare una strategia alternativa per la difesa del suo assistito, che, dunque, è rimasto in carcere. Il giudice parla di un «un evidente errore materiale di battitura», ravvisabile nel «riferimento al comma 5 dell'articolo 73 Dpr 309/1990, anziché al comma 1, relativo alle sostanze di cui alla tabella I prevista dall’articolo 14 del Dpr 309/1990, tra cui rientra la cocaina, alla quale sia nella parte in fatto dell’imputazione, così come nella parte motiva, vi è il chiaro e inequivoco riferimento, quale oggetto dell’illecita detenzione per cui è stato disposto l’arresto. Trattasi dunque, in concreto, di fattispecie che rende non solo obbligatorio l’arresto in flagranza, ma che sorregge la misura cautelare detentiva in carcere a norma dell’articolo 280 del codice di procedura penale». E tanto basta, dunque. «La nostra libertà è quindi appesa alla possibilità che un 5 significhi in realtà un 1 - ha concluso il legale -. Ma la libertà è davvero così poco importante da meritarsi questo?».