Ebbene sì, dopo il via libera in commissione Giustizia dello scorso 29 giugno, la legge sull’equo compenso per le prestazioni dei professionisti iscritti a Ordini e collegi approda in Aula: la data fatidica è il prossimo 20 luglio. La notizia, com’è facile immaginare, è stata accolta tra grida di giubilo e festose esultanze da tutti i professionisti, e noi, ovviamente, facciamo festa con loro.

Sentiamo intonare peana di glorioso trionfo ovunque: “Finalmente viene tutelata la professione”, “sono stati sconfitti i poteri forti”. Come detto, ci associamo all’esultanza, anche se – vista l’efficacia dei precedenti ( v. L. 172 del dicembre del 2017) – l’Avvocatura pubblica adopera qualche cautela in più.

Al di là di questa cautela, però, e a prescindere da alcune perplessità su un testo che prevede, fra l’altro, sanzioni per i professionisti che accettano tariffe basse ( sì, per i professionisti, non per chi gliele impone), qualche riflessione la facciamo.

Indubbiamente viviamo in uno strano Paese dove, a seconda delle circostanze di tempo e di luogo, cambiano le opinioni e cambia il modo di vedere le cose. Così non basta una norma impressa graniticamente nella nostra impeccabile Costituzione a stabilire che chi lavora ha diritto a un compenso adeguato ( il riferimento all’art. 36 è fin troppo ovvio), non basta ricordare che la schiavitù è finita ( o quasi) nel tardo impero romano già nel V secolo ( vabbè, si è passati dalla schiavitù alla servitù, ma questi sono dettagli e comunque la legge che abolisce la tratta degli schiavi da noi è del 1831); non basta ricordare che negli Stati Uniti il 18 dicembre 1865 è entrato in vigore il tredicesimo emendamento della Costituzione che aboliva ( appunto) la schiavitù e che tale condizione è stata abolita in Qatar nel 1952, nella Repubblica Araba dello Yemen nel 1962, negli Emirati Arabi Uniti nel 1963, nello Yemen del sud nel 1967 e nell'Oman nel 1970.

Non basta tutto questo perché evidentemente da noi, ancora nel “terzo millennio” c’è chi ritiene che si possa, anzi si debba lavorare gratis! Non ci si può rallegrare troppo se nel 2022 occorre ancora che il legislatore intervenga a porre fine a quello sconcio di cui ci si dovrebbe vergognare, che consiste nella pretesa da parte di alcuni, per alcune categorie, e solo per queste, di una prestazione gratuita.

Si diceva che viviamo in uno strano Paese. Eh sì, perché se pare lecito chiedere all’avvocato consulenze e prestazioni forensi gratuite ( anzi di più: si può anche pretendere di sostenere le spese anticipandole e poi, magari, senza rimborsarle), nessuno si sognerebbe di chiedere all’idraulico chiamato per riparare il tubo rotto di andarsene a casa felice e contento senza essere pagato, e avendo perfino comprato a proprie spese il tubo nuovo. Così c’è un giudice a Roma ( anzi due, altro che Berlino!) secondo il quale l’avvocato ben può lavorare gratis per la pubblica amministrazione perché ne ricava «una sicura gratificazione e soddisfazione personale per avere apportato il proprio personale, fattivo e utile contributo alla “cosa pubblica”» ( sì, scrive proprio così!). Chissà se anche l’idraulico ne ricaverebbe altrettanta gratificazione. Ma si sa che l’avvocato non capisce un tubo, perciò come si permette di chiedere un compenso, oltretutto “equo”, quando già ottiene “arricchimento curriculare, fama, prestigio, pubblicità”? ( sic!).

Scopriamo, e anche questo ci rende felici, che il dipendente pubblico non è quel fannullone incompetente e accidioso che tanti e ingiusti luoghi comuni ci raccontano ogni giorno ( in effetti la stragrande maggioranza dei dipendenti pubblici lavora sodo e spesso in condizioni di estrema difficoltà per mancanza perfino degli strumenti indispensabili), ma è capace di guadagnarsi, per il solo fatto di lavorare per una Pa, fama, prestigio e pubblicità ( L'École nationale d'administration ci fa un baffo, ma non ditelo agli idraulici). Chissà perché i manager pubblici non avvertono questo prestigio e vogliono essere lautamente pagati. Speriamo, allora, che il Senato approvi presto in aula la legge sull’equo compenso e poi faremo festa tutti insieme. Nel frattempo, non sappiamo se qualche giudice, la cui carriera è sicuramente ( e giustamente) prestigiosa assai, sentendosi oltremodo gratificato dal contribuire alla cosa pubblica avrà versato il suo intero stipendio in beneficenza, per una gratificazione ancora maggiore, ma ricordiamoci che già Nostro Signore ebbe a dire, oltre duemila anni fa: «In qualunque casa entriate, prima dite: “Pace a questa casa!”… Restate in quella casa, mangiando e bevendo di quello che hanno, perché chi lavora ha diritto alla sua ricompensa» ( Luca 10, 5 - 7).