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Nel giro di pochi giorni si sono verificati altri tre suicidi all’interno delle carceri, l’ultimo questa notte nell’istituto San Vittore di Milano, dove si è impiccato un detenuto italiano di 35 anni.
La strage senza fine rende sempre più difficile l’aggiornamento del numero totale di ristretti che si sono tolti la vita dall’inizio dell’anno: secondo le informazioni fornite da Ristretti Orizzonti, il bilancio è salito a 51 suicidi. Il rischio imminente è che si superi il triste record dell’anno precedente. Tuttavia, al momento, non sono state introdotte riforme significative né sono stati presi provvedimenti legislativi specifici per affrontare questa emergenza.
Il decreto che approderà al consiglio dei ministri si concentra principalmente sull’aumento di soli due permessi telefonici aggiuntivi per i detenuti e sull’introduzione di un’ulteriore risposta penale al disagio carcerario, in particolare l’aggravante per i detenuti che aggrediscono gli agenti penitenziari.
Come ha sottolineato recentemente il segretario generale della Uilpa Pp, Gennarino De Fazio, ritenere che l’aggravante di pena possa costituire una soluzione efficace per fermare la violenza in carcere è un’idea limitata e inefficace. Soprattutto se si considerano i casi di detenuti che non hanno nulla da perdere o che soffrono di patologie psichiatriche.
Qualche ora prima del suicidio a San Vittore, a togliersi la vita domenica scorsa è stato un giovane di soli 21, che si trovava in cella nel carcere di Regina Coeli a Roma, sospettato di essere affetto da scabbia. La situazione all’interno di questo istituto è disastrosa, tanto che il Pa capitolino ne ha chiesto l’immediata chiusura. Giovedì scorso, invece, un detenuto italiano di trent’anni si è tolto la vita nel carcere di Busto Arsizio, mentre nello stesso carcere, nello stesso giorno, un detenuto marocchino è deceduto per arresto cardiaco. Ricordiamo che il 6 giugno scorso è morto in ospedale un ragazzo di 29 anni, proveniente anch’egli dal carcere di Busto Arsizio, con disturbi psichici e una storia di tossicodipendenza. La madre di questo giovane, visibilmente commossa, ha lanciato un accorato appello: «Curate questi ragazzi, avete le risorse per salvarli con le cure adeguate e la rieducazione. Mio figlio non è stato adeguatamente seguito. Non si può morire in carcere a ventinove anni». L’ultimo colloquio con il ragazzo aveva lasciato presagire problemi di salute evidenti, ma le cure fornite in infermeria erano limitate a gocce e psicofarmaci, una soluzione che non poteva risolvere i suoi gravi problemi.
Il 30 agosto, un detenuto italiano di 35 anni si è suicidato nel carcere di Frosinone, dove stava scontando una pena per spaccio di droga. All’inizio dell’anno, nello stesso carcere, un uomo di 69 anni è morto, condannato per furto, ricettazione e spaccio di stupefacenti. Questo sessantanovenne, positivo all’HIV e con gravi problemi di salute, non avrebbe dovuto trovarsi in cella fino al 2029, secondo il Garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasia. Il carcere rappresenta un ambiente poco idoneo per ricevere le cure necessarie, e in molti casi, la malattia prende il sopravvento. Se non ci si toglie la vita, ci pensa la malattia. Dall’inizio dell’anno siamo già a un totale di 113 decessi.