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Ci sono tre cose che il presidente dell'Anm Piercamillo Davigo, l'antimafia siciliana e il Fatto quotidiano non perdoneranno mai a Giovanni Canzio, il primo presidente della Corte di Cassazione che, insieme ad altre figure apicali della magistratura italiana, potrà beneficiare del decreto di proroga approvato ieri l'altro dal governo. La prima cosa "imperdonabile" risale al 20 gennaio 2005, giorno in cui Canzio - che allora era consigliere in Cassazione - scrisse e depositò la sentenza con cui la Corte del palazzaccio di Roma annullò la condanna nei confronti di Calogero Mannino, il dirigente democristiano accusato dalla procura di Palermo di concorso esterno in associazione mafiosa.La seconda risale invece al 2011, anno in cui Canzio venne nominato presidente della Corte d'Appello di Milano. Nomina che Davigo e i suoi colleghi milanesi vissero come una sorta di sopruso, di vera e propria invasione.Il terzo e ultimo atto si compì in occasione dell'inaugurazione dell'anno giudiziario del 2015. In quell'occasione Giovanni Canzio rimproverò pubblicamente i magistrati che avevano chiesto l'audizione di Giorgio Napolitano nel processo sulla presunta e mai provata trattativa tra Stato e mafia: «È mia ferma e personale opinione - disse Canzio - che questa dura prova si poteva risparmiare al Capo dello Stato, alla magistratura stessa e alla Repubblica Italiana». Da lì in poi pezzi della procura milanese e palermitana inziarono la loro personalissima battaglia contro Canzio.Ma fu soprattutto la sentenza Mannino, scritta e depositata da Canzio nel 2005, a segnare uno spartiacque definitivo. La storia del dirigente democristiano è nota. Una vicenda giudiziaria lunga 17 anni che, dopo la condanna in appello a 5 anni e 4 mesi di carcere, si concluse con le parole con cui il procuratore generale Siniscalchi demolì quella sentenza: «Non c'è nulla», disse. «Mi sono trovato dinanzi al nulla», ripetè nella sua arringa. E ancora: «La sentenza torna ossessivamente sugli stessi concetti, ma non c'è nulla che si lasci apprezzare in termini rigorosi e tecnici, nulla che indichi un patto elettorale con la mafia, favori in cambio di voti, nulla che possa valere a sostanziare l'accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Questa sentenza costituisce un esempio negativo da mostrare agli uditori giudiziari di come una sentenza non dovrebbe mai essere scritta». Parole di fuoco che da un lato suscitarono la reazione dei pm palermitani, trattati come bambini alle prime armi, e dall'altro spinsero la Corte ad annullare quella condanna. Nei giorni successivi fu proprio Giovanni Canzio a scrivere e depositare le motivazioni di quella sentenza. Una relazione che fece la storia della giurisprudenza e che mise a fuoco tutte le problematiche del concorso esterno, una delle fattispecie più contraddittorie e contestate. Di lì in poi, infatti, i pm stettero molto molto attenti ad utilizzare con troppa leggerezza il concorso esterno "preferendo" di gran lunga il reato di associazione mafiosa e favoreggiamento.Ma torniamo alla vicenda Mannino. Nella sua relazione Canzio liquidò quella sentenza parlando esplicitamente di «frattura logica del ragionamento probatorio». Canzio spiegò inoltre che il concorso esterno di un politico è configurabile solo nel caso in cui «gli impegni assunti dal politico abbiano il carattere della serietà e concretezza e che all'esito della verifica probatoria ex post della loro efficacia causale risulti accertato». Di più: per parlare di concorso esterno, gli impegni del politico che aiuta la mafia «devono incidere effettivamente e significativamente sulla conservazione o sul rafforzamento delle capacità operative dell'intera organizzazione criminale o di sue articolazioni settoriali». Caratteristiche che, nel caso Mannino, erano del tutto assenti: «Da un lato - scrisse ancora Canzio - sembrano indeterminate le concrete linee dell'apporto del politico, al di là dell'assicurazione di una generica "disponibilità" o "vicinanza". Dall'altro, con riferimento alla mera idoneità ex ante del patto - che si definisce "occulto" - per il rafforzamento della struttura associativa e ad una sorta di "sostegno morale" da esso derivante, si sottolineano la previsione di "favori" nei vari settori di interesse del sodalizio e la "carica psicologica dell'intera organizzazione" per il "rinnovato prestigio criminale acquisito" e per l' "aspettativa di impunità". Concetti, questi, fluidi e virtuali dalla cui vaghezza semantica e retorica non sembra lecito, a ben vedere, trarre solide conclusioni probatorie in tema di concorso esterno in associazione mafiosa». Parole definitive che, anche per il prestigio di chi le scrisse, ebbero un impatto decisivo su molte indagini future. Un vecchio leone del giornalismo come Lino Jannuzzi, in quei giorni scrisse: «Le conclusioni del processo a Mannino sono una sconfitta dei professionisti dell'antimafia e sono suscettibili di avere serie conseguenze sull'esistenza stessa del loro cavallo di battaglia preferito, il cosiddetto reato di concorso esterno in associazione mafiosa, lo strumento classico che usano per mettere sotto processo i politici».