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Nel processo per la trattativa Stato-mafia degli anni '90 almeno si capisce perché compaia il riferimento a Cosa nostra. Pare poco, ma a paragone del processo romano a mafia-capitale, dove per quanto uno si sforzi proprio non arriva a capire cosa c'azzecchi la mafia è già parecchio.Magari fidarsi alla cieca e anzi promuovere sul campo a "icona dell'antimafia", Antonio Ingroia dixit, un tipo che non gli lasceresti il portafogli in mano cinque minuti senza come Massimo Ciancimino, figlio di don Vito, è stato un tantinello azzardato. Può capitare che qualche magistrato, nel caso il gup Marina Petruzzella, bolli "l'icona", nelle motivazioni della sentenza che un anno fa tondo mandò assolto Calogero Mannino, con parole tali da far tremare el fondamenta del processo a carico degli altri imputati peggio che sotto le case di Amatrice: «L'analisi integrale delle dichiarazioni di Massimo Ciancimino ne ha rivelato l'assenza di coerenza e ha reso palese la strumentalità del comportamento processuale».Fosse solo l'inesistente credibilità del teste chiave ancora la faccenda potrebbe reggersi in piedi, sia pur barcollando peggio di un ubriaco fradicio. Il gup però, nella medesima sentenza, smantella di brutta il metodo stesso su cui è basato l'impianto accusatorio: «Elementi del contesto politico vengono caricati di valore dimostrativo... poi tutti questi elementi vengono considerati situazioni probatorie o di riscontro indiziario reciproco, in una sorta di suggestiva circolarità probatoria». Si sa che le toghe parlano una lingua tutta loro, che difficilmente l'Alighieri apprezzerebbe. La traduzione di quanto sopra in italiano corrente è comunque stringata: "Teorema" Mannino. La sentenza che lo ha assolto con formula piena dall'accusa di "Minaccia a corpo politico dello Stato" non coinvolge gli altri imputati nel processo per la trattativa Stato-mafia. Non sulla carta, almeno, perché nella sostanza le cose stanno diversamente. Mannino, ras della Dc siciliana ai bei tempi, non era infatti solo l'imputato forse più eccellente nel processone, ma dell'osceno mercanteggio tra servitori dello Stato e onorati macellai era secondo l'accusa anche il motore. Era stato lui il primo e principale a insistere perché di trattasse, temendo soprattutto per la pellaccia propria dopo la sanguinosa fine del compagno di partito Salvo Lima. Caduta l'accusa contro di lui la dinamica del processo resta alla lettera priva di molla.Vero è che qualche dubbio in materia sorgeva anche a occhio nudo, a lume di logica e senza attendere donna Marina Petruzzella. Il frutto dell'inconfessabile connubio sarebbe stato infatti la non conferma del 41bis per 140 detenuti di mafia deciso dall'allora ministro della Giustizia Conso. La norma rigidissima decadde in effetti nel novembre 1993, però meno di due mesi dopo Cosa nostra andò a un millimetro dal realizzare la strage più efferata allo stadio Olimpico di Roma. Tutto è possibile, ma se la trattativa era andata a buon fine che bisogno c'era di quell'ammazzatina di massa che doveva sterminare qualche centinaio d'innocenti?Con tutti i suoi limiti, il processo di Palermo è ancora una perla se paragonato a quello di Roma. Un paio di giorni fa, in aula, un paio di ufficiali del Ros hanno detto senza giri di parole che, a quanto risulta dalle loro indagini, di mafia negli affari di Massimo Carminati e Salvatore Buzzi non c'è traccia. Con immancabile stupore del plotone di cronisti che aveva finto di credere alle spiegazioni della procura.La mafia della Capitale in effetti appariva strana a prima vista. Omicidi: zero. Violenze: zero. Minacce: zero, a meno di non voler considerare tale la frase più pesante che scappa detta al famigerato Carminati, alludendo al camerata Mancini: «Ditegli che mi ha rotto il cazzo». Mazzette, tangenti e corruzione a iosa. Ma la mafia? Trattasi di mafia peculiare e moderna, dissertò la procura. Gente che nemmeno ha più bisogno di usare metodi mafiosi e che tuttavia mafiosa resta dal momento che c'è mafia ogni volta che «si esercita forza di intimidazione derivante dal vincolo associativo». Messa così, però, il solo malvivente italiano non mafioso risulterebbe essere il compianto Luciano Lutring, detto "il solista del mitra".Su questa base, inoltre, il comune di Roma avrebbe dovuto essere sciolto senza il minimo dubbio, essendo l'infiltrazione mafiosa un allagamento. Così non fu e la spiegazione, offerta a porte chiuse di fronte alle commissioni parlamentari ma ampiamente trapelata, fu che c'era sì stata mafia negli anni dell'amministrazione Alemanno, ma una volta subentrato Marino il rosso sangue si era stinto nel rosato semplice della buona vecchia corruzione, dal momento che a dirigere le operazioni non era più il camerata Carminati ma il compagno Buzzi. In compenso fu sciolto per mafia il municipio di Ostia, dove però in base alla sentenza d'appello del giugno scorso contro don Carmine Fasciani e il suo clan la mafia risulta non esserci...Il funambolismo è in realtà coerente con l'impianto complessivo dell'accusa e che non si riduce a semplice teorema. Nella Capitale c'è mafia perché c'è Carminati, con la sua più volte citata "straordinaria caratura criminale". Detta caratura, oltre che dai trascorsi, è confermata proprio dal fatto che diriga il carrozzone detto appunto mafia capitale. Trattasi quindi di un cerchio: i corruttori delle coop romane e i corrotti dell'amministrazione sono in realtà mafiosi perché di mezzo c'è Carminati, il quale è chiaramente un capomafia perché gestisce quell'affaire. Tutto ciò, sia chiaro, non significa che le mafie non siano in Italia un problema immenso. Ma anche la magistratura non scherza.