«È stato il poliziotto Giovanni Aiello, alias "Faccia da mostro", a far saltare in aria Paolo Borsellino e i cinque agenti di scorta. Fu lui a schiacciare il pulsante in via D'Amelio. Me lo confidò Pietro Scotto quando eravamo in carcere all'Asinara. E anni dopo me lo confermò Aiello in persona. Aggiunse che a Palermo aveva fatto anche altre cose, fra cui l'omicidio Agostino. Ma quando ho raccontato tutto sono stato minacciato dai servizi». Sono parole forti quelle riportate da Il Fatto Quotidiano, parole che portano la firma di Nino Lo Giudice, alias "il nano" il più controverso dei collaboratori di giustizia della Procura di Reggio Calabria. Parole che il due volte pentito, ex boss dell'omonimo clan, mette a verbale tra Reggio e Catanzaro e che arrivano in Sicilia, dove si indaga sulle stragi in cui hanno perso la vita i giudici Falcone e Borsellino.In quei verbali, Lo Giudice spiega i motivi della sua fuga e le sue paure. «Ho iniziato a ricevere strane visite a Macerata, la località segreta in cui vivevo. Un giorno, due mesi dopo l'incontro con Donadio (Gianfranco, ex procuratore aggiunto della Dna, ndr) mi vennero a trovare due uomini in borghese che si qualificarono come carabinieri. Pensai subito che fossero dei servizi. Mi fecero salire su una Punto e notai che erano armati di Beretta. Mi portarono fuori città. La Punto si fermò vicino a una Bravo marrone e mi fecero salire a bordo. C'erano altri due uomini ad aspettarmi. A parlarmi fu uno, testa rasata e accento laziale. Sapeva che avevo parlato di Aiello e mi disse di stare attento a toccare certi argomenti, soprattutto in futuro».Chi è "faccia da mostro" -? Il nome di Aiello, 69 anni, originario di Montauro, in Calabria, in servizio al ministero degli Interni fino al 1977, finisce in diverse inchieste. Da quella sul tentativo di uccidere Giovanni Falcone all'Addaura fino alla strage di via D'Amelio, passando per il delitto del commissario Cassarà e del poliziotto Nino Agostino. Lo chiamano "faccia da mostro" per una ferita sul volto che lo rende inconfondibile. Dopo il congedo si rifugia in Calabria, dove ufficialmente fa il pescatore. Per lunghi periodi di lui si perdono le tracce. Il suo nome, però, viene tirato in ballo più volte da diversi pentiti. Tra questi anche Consolato Villani, ex braccio destro del "nano" e autore degli attentati contro i carabinieri compiuti a Reggio Calabria tra il '93 e il ?94. «Nino Lo Giudice mi parlò di ex esponenti delle forze dell'ordine, appartenenti ai servizi segreti deviati, che un uomo deformato in volto, insieme a una donna avevano avuto un ruolo nelle stragi di Falcone e Borsellino ? dice in udienza a novembre 2014 -. Mi disse che questi personaggi erano vicini alla cosca Laudani ed alla cosca catanese di Cosa nostra».Il pentito controverso. Ma il "nano" può ritenersi davvero credibile? Le sue parole stanno ancora confluendo nelle indagini della Dda reggina. L'ultima, in ordine di tempo, è quella che ha messo in luce l'esistenza della cupola di invisibili che governerebbe Reggio Calabria. Per il pm Giuseppe Lombardo, che ha seguito l'indagine "Mamma santissima", le parole di Lo Giudice sono attendibili. Così come lo sono quelle di Villani. Ma sul suo curriculum di pentito pesano la fuga, dopo due anni e mezzo di collaborazione, e due memoriali in cui smentisce le precedenti dichiarazioni e per i quali è indagato a Catanzaro. Il suo nome è al centro di una stagione infuocata di veleni tra toghe. Appena inizia a cantare, svela al magistrato Giuseppe Pignatone di essere l'autore degli attentati in procura del 2010. Ma il "nano" va oltre e insinua che tra il fratello Luciano ed alcuni magistrati, ci sia un rapporto "speciale". Si tratta dell'allora numero due della Dna, Alberto Cisterna, e l'attuale procuratore generale della corte d'appello di Roma, Francesco Mollace. In un vortice di dichiarazioni contrastanti, Lo Giudice arriva a dire che per far scarcerare suo fratello Maurizio, Luciano avrebbe sborsato «molti soldi» a Cisterna. Che finisce indagato, vedendo la sua carriera andare in pezzi: da vice di Pietro Grasso finisce a fare il giudice a Tivoli. Poi, però, la sua posizione viene archiviata. Mollace, dall'altro lato, finisce pure davanti ai giudici a Catanzaro, con l'accusa di aver omesso di svolgere indagini sulla cosca in cambio di favori. Anche lui, però, viene assolto perché il fatto non sussiste. Nel mezzo ci stanno i memoriali ritrovati dopo la fuga. In quelli Lo Giudice nega di essere l'autore degli attentati e le accuse alle toghe e parla di un vero e proprio complotto. «A Reggio c'erano due tronconi di magistrati che si lottavano tra di loro facendo scempio degli amici di una delle due parti». Una cricca, diceva, composta da «Di Landro, Pignatone, Prestipino, Ronchi e il dirigente della Mobile Renato Cortese». Dopo essere stato riacciuffato, si è chiuso in un lungo silenzio. Poi, alla fine dello scorso anno, ha ripreso a parlare.