Nelle sue più recenti iniziative, e in particolare nella battaglia per l’equo compenso, il Consiglio nazionale forense ha puntato ad affermare un principio: l’avvocato è un lavoratore e in quanto tale ha diritto alle tutele stabilite innanzitutto dalla Costituzione per chiunque viva del proprio lavoro. La tesi trova sostegno anche nella particolare condizione degli avvocati pubblici, iscritti all’elenco speciale in virtù dell’attività svolta in via esclusiva, e come lavoratori dipendenti appunto, presso un’amministrazione pubblica. Caso unico nel sistema delle professioni, che si intreccia con i temi del decoro e della dignità: per questo ieri, presso la sede del Cnf, la Scuola superiore dell’avvocatura ha promosso un incontro per fare il punto sugli avvocati degli enti pubblici, e sull’articolo 23 a loro dedicato nella legge professionale, “a 5 anni dalla promulgazione” di quest’ultima. Dibattito trasformato anche in un’occasione di avvicinamento «tra questi colleghi iscritti nell’elenco speciale e quelli del libero foro», come spiega il consigliere Cnf Andrea Pasqualin in apertura.

E c’è un tempismo da non sottovalutare, aggiunge il consigliere nazionale, «rispetto alla discussione del contratto collettivo, con uno specifico tavolo dedicato agli avvocati pubblici». E qui entra in gioco il tema della «adeguatezza», sul quale si soffermano molti dei relatori del convegno, trasmesso in streaming dalla Scuola dell’avvocatura in modo da coinvolgere i colleghi delle amministrazioni pubbliche disseminati in tutto il Paese. È la presidente dell’Unione nazionale avvocati enti pubblici ( Unaep) Antonella Trentini a spiegare che «in assenza di un contratto nazionale, l’articolo 23 della legge professionale è destinato a restare lettera morta. Vi si richiama la necessità di un compenso adeguato alla professione svolta: ora siamo di fronte a un vuoto, ma anche all’evidente simmetria dei problemi che riguardano noi legali inseriti nell’elenco speciale così come tutti i colleghi del libero foro. Se noi attendiamo certezze dal contratto nazionale, la professione nel suo complesso si è giustamente battuta, Cnf in testa, per la legge sull’equo compenso. Ebbene», nota Trentini, «quest’ultima normativa sembrerebbe riguardare solo i rapporti tra chi esercita la libera professione e i committenti forti, ma pare chiaro che dall’applicazione dell’equo compenso finiranno per discendere conseguenze anche rispetto alla retribuzione degli avvocati pubblici». E qui il tema del decoro professionale emerge con chiarezza: il nodo del contratto ricorda che l’avvocato, in questo caso dipendente, è pur sempre un lavoratore. Si tratta appunti del principio richiamato dal Cnf nelle battaglie vinte sull’equo compenso come sull’adeguamento dei parametri forensi.

A soffermarsi sui dettagli normativi del compenso per i legali assunti presso le amministrazioni pubbliche è il docente dell’università di Bologna Sandro Mainardi, che a sua volta torna sulla parola chiave contenuta nell’articolo 23 della legge professionale, «adeguatezza». Termine che, nota il professore, «in un giuslavorista evoca immediatamente l’articolo 36 della Costituzione, in cui la retribuzione del lavoratore deve essere in grado di assicurare la dignità della sua condizione di vita». Altro aspetto che avvicina l’avvocato a ogni altro cittadino che viva della propria attività. Un esempio di organicismo del sistema sociale che, per la segretaria generale della Federazione legali parastato ( Flepar) Tiziana Cignarelli, impone «a tutti gli avvocati pubblici d’Italia di restare vigili sulla questione del contratto nazionale, uniti e compatti». Spirito che, sembrano indicare le battaglie vinte di recente, è prezioso in ogni caso in cui l’avvocatura intenda far valere i propri diritti. Coesione e unità d’intenti sono state preziose anche nell’insidioso confronto dei mesi scorsi tra la stessa avvocatura e l’Anci. In quel caso, ricorda Pasqualin, «si è registrata piena sintonia tra il Consiglio nazionale e l’Unaep: il Cnf ha messo sul tavolo un parere del proprio ufficio studi con cui è riuscito a fermare una norma, sollecitata dai Comuni, che avrebbe consentito l’utilizzo dei dirigenti degli uffici legali pubblici per funzioni amministrative diverse da quelle proprie della nostra professione. Ebbene, in quel caso si riuscì a dimostrare che la norma proposta dall’Anci sarebbe stata illegittima perché in contrasto con quanto disposto dalla legge professionale, che in quanto norma speciale è inderogabile da altra legge ordinaria. E in quella occasione il Cnf ha ribadito quanto sia importante, per l’intera avvocatura, la condizione dei colleghi che lavorano per le amministrazioni publiche».