Riportiamo di seguito la prima parte della relazione svolta da Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte costituzionale, al 70° Congresso di studio dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani dal titolo “Gli ultimi. La tutela giuridica dei soggetti deboli”. Il Congresso si è tenuto a Roma lo scorso 9 dicembre. Nel pronunciare il suo discorso, Flick ha intessuto un dialogo continuo con l’altro prestigiosissimo relatore intervenuto, il giudice costituzionale Giuliano Amato. Sul Dubbio di domani pubblicheremo la seconda parte della relazione. Non ho molto da dire se non ricordare alcuni slogan del momento in cui viviamo, uno dei quali ad esempio è lo slogan “usa e getta”. Il mercato, il profitto, un qualcosa che è molto lontano da ciò che ci ha spiegato nella sua relazione Giuliano Amato e che tutti condividiamo. La pandemia è stato uno stress-test sulla convivenza che ha aperto molti interrogativi e molte perplessità. Non ha causato, perché c’erano già, ma ha rafforzato ed enfatizzato una serie di diseguaglianze che sono l’esatto contrario di ciò che ci dicono il Vangelo e la Costituzione italiana.Una delle prime domande che mi pongo in relazione al tema del congresso è sulla bocca di tutti. Non posso pormela per il Vangelo perché sono convinto che certamente è ancora attuale; posso e devo pormela invece per la Costituzione: è ancora attuale? Rispetto all’età di quest’ultima, ai suoi problemi, alle sue lacune, a ciò che manca in essa, molto è stato detto dal professor Amato. La sua elencazione dei diritti dei deboli dimostra però che la Costituzione è fortemente presente in questo campo, alla luce della serie di principi e di articoli che sono stati richiamati nella sua relazione. Il problema allora non è se la Costituzione è attuale; è che la Costituzione non è attuata. Una cosa molto diversa e forse più preoccupante.Secondo la saggezza del Libro dei libri, della Bibbia, della Genesi, ci stiamo avviando al secondo diluvio universale. Ne abbiamo purtroppo sottomano avvisaglie molto forti; accentuerà ancora di più le diseguaglianze che già oggi ci sono perché il nuovo diluvio universale nasce dal problema della lotta tra l’uomo e l’ambiente. Abbiamo cominciato ad avvertirne il pericolo per la nostra sopravvivenza e la paura che ci potrà essere per il futuro. Non abbiamo però avvertito un altro rischio altrettanto forte e altrettanto grave; per continuare ad usare i riferimenti della Bibbia è il problema della torre di Babele. Per valutare l’entità di quel rischio è sufficiente ricordare il percorso rapido, sconvolgente e incredibile, dalla informazione all’informatica; o tener presente il fatto che mentre prima era il diritto a creare il linguaggio, ora al contrario è il nuovo linguaggio digitale a creare il diritto; o valutare la frattura che si sta creando con il digital divide. Credo e temo che ci stiamo avviando verso una nuova torre di Babele, attraverso una situazione in cui (più prima che dopo) il linguaggio criptico e per pochi eletti della digitalizzazione inevitabile – pur con tutti i vantaggi enormi che essa ci ha dato nel presente e ci ha promesso per il futuro – finirà per riproporci la stessa situazione che capitò ai nostri progenitori che nella piana di Ur stavano realizzando una torre destinata ad arrivare fino al cielo: la torre di Babele. Ad essa seguì per volontà del Padreterno la incomunicabilità fra gli uomini e la loro diaspora. Intravedo questo negli orientamenti che mi sembra di cogliere nell’evoluzione dei social e dei padroni del web – un tempo si diceva i “baroni ladri”, con riferimento ai protagonisti delle ferrovie che unirono le due parti occidentale ed orientale degli Stati Uniti – e nella prospettiva di nuove rotte e nuovi traguardi cui essi stanno già pensando. C’è chi pensa – non ho capito se per sfuggire ad un eventuale default – alla creazione di un mondo completamente virtuale, in cui appartarsi e vivere in una bolla di illusioni grazie agli occhiali miracolosi del “metaverso”. C’è chi pensa alla realizzazione di una nuova umanità planetaria lasciando questa terra che dovrebbe rimanere solo più un deposito di rifiuti derivanti dal principio “usa e getta”. C’è chi pensa al post-umano, cioè ad un dialogo tra l’uomo e la macchina in cui non sarà più l’uomo a governare la macchina, ma rischiamo che sia la macchina con la sua capacità a governare l’uomo. È una provocazione vivere in un mondo nel quale Facebook mi dice chi sono, Google mi dice cosa penso, Amazon mi dice cosa voglio. È una provocazione preoccupante quella di chi propone di dare un premio Nobel a un calcolatore di recentissima progettazione, di dimensioni di capacità di calcolo immani. È un’altra provocazione quella della progettazione di un calcolatore la cui potenza di calcolo è inimmaginabile per noi. È una provocazione quella di chi – attraverso un approfondimento ulteriore dello studio di quelle che un tempo erano considerate le neuroscienze – immagina già un dialogo tra l’uomo e la macchina che consenta di cambiare dei pezzi di uomo con i pezzi della macchina, a cominciare dalla telecamera al posto dell’occhio. Si pensa addirittura di arrivare ad un dialogo uomo/macchina che non richiede più il ricorso al linguaggio; basterà lo sguardo, basterà il battito di ciglia. Temo che tutto questo – se non ci riflettiamo e se non riusciamo a elaborare delle regole efficaci ed adeguate per raggiungere un equilibrio tra scienza ed etica, tra strumenti e valori, tra diritti e morale – possa diventare un problema molto forte per il futuro dell’umanità e della convivenza. Ho recentemente tentato di compiere una verifica per valutare se la Costituzione non è più attuale o più semplicemente non è attuata. Una verifica sul concetto di dignità, nella quale condivido pienamente ciò che hanno detto il professor Amato nella sua relazione e la Corte costituzionale più volte. Sono sempre più convinto che l’accusa di inattualità cerchi di nascondere l’alibi della mancata attuazione della Costituzione da parte di tutti noi, politici, economisti, uomini di cultura e giuristi in prima fila.È un discorso che preoccupa perché basta pensare ad esempio allo sviluppo abnorme della città. Amato parlava dell’incendio nelle baracche. Due o tre anni fa è bruciata la guglia di Notre Dame: una vicenda triste; però per fortuna era una guglia dell’ottocento, si è potuto ricostruirla. Il mondo intero si è appassionato, ha promesso soldi che poi non ha mai dato (ma questo è un altro discorso) e ne hanno parlato tutti i media. Negli stessi giorni è bruciata una baraccopoli vicino a Foggia. Una cronaca drammatica che si ripropone quotidianamente come quella della morte nel cimitero del Mediterraneo. La mattina dopo spazzando le ceneri si sono trovati i resti di un migrante clandestino raccoglitore di pomodori. Nessuno ne ha parlato. Certo non si conosceva quell’episodio se non a livello locale, ma viviamo in un mondo così attento alle chat, al pettegolezzo, alle discussioni profonde sui vax e sui no-vax, che però non coglie più realtà come quelle di chi muore mentre raccoglie i pomodori; o di chi muore nelle baracche cercando di riscaldarsi la notte dopo aver raccolto i pomodori; o di chi muore annegato mentre cerca di raggiungere e conquistare il posto di raccoglitore dei pomodori. C’è qualcosa che non funziona in questo sistema. La città è l’emblema paradigmatico della meraviglia e della tecnologia, ma anche dei rischi della tecnologia. Ci stiamo illudendo che la tecnologia sia la bacchetta magica, che l’algoritmo e la digitalizzazione possano risolvere tutti i problemi della città con la smart city o la città “in un quarto d’ora”. In realtà però rimangono aperti tutti i problemi di una convivenza nella megalopoli urbana. In essa, la cosiddetta “città giusta” è rimasta un’utopia; le città adesso sono ridotte a ghetti dei ricchi che si fronteggiano con i ghetti dei poveri. La città non è più quella indicata dalla Costituzione come formazione sociale ove si svolge la personalità dell’uomo attraverso il rispetto dei diritti inviolabili e dei doveri inderogabili. È piuttosto una realtà di convivenza in nome del commercio, del profitto e/o della sicurezza (spesso illusoria); o di convivenza in nome del potere, della burocrazia, del conflitto di competenze. Poi arriva la pandemia, con la sua falce che porta via tutti. Solo adesso cominciamo – questa mi pare una speranza per il futuro – a renderci conto che non usciremo dalla pandemia se non “salviamo l’Africa”.Perché salvare l’Africa? Perché altrimenti è perfettamente inutile continuare a produrre vaccini che proteggano le nostre fortezze del benessere; il virus ha trovato la strada per diventare un fenomeno globale che ci coinvolge tutti.Qualche volta viene da pensare ai fuggiaschi ebrei dall’Egitto quando, dopo aver attraversato il Mar Rosso, stavano percorrendo con fatica, con noia, con ansia il deserto per arrivare alla Terra promessa. Non ne potevano più e approfittarono dell’assenza di Mosè, che era salito sul monte Sinai a prendere le tavole della legge, per costruirsi un vitello d’oro. Noi adesso al vitello d’oro stiamo sostituendo l’algoritmo d’oro: cioè il modo di affrontare i problemi della vita solo ed esclusivamente attraverso una logica di calcolo. È un calcolo meraviglioso, quasi infinito nelle sue potenzialità; però la realtà rimane in tutta la sua drammaticità; è come la storia del mitico re Mida che era felice di trasformare in oro quello che toccava fino a quando si accorse (quasi subito) che non poteva più portare il cibo alla bocca. Tanto è vero che – arrivando alla conclusione di un percorso in cui mi sono occupato soprattutto di diritto – vedo con qualche perplessità e preoccupazione il valore mitico attribuito alla digitalizzazione nella progettazione del piano del recovering in vista degli aiuti finanziari europei. Ci illudiamo veramente che le risorse della digitalizzazione – che pure è assolutamente necessaria – saranno sufficienti a risolvere i problemi della giustizia? Oppure arriveremo prima o dopo ad una giustizia di tipo predittivo che ha molto poco di predittivo perché è una giustizia sistemata soltanto con la selezione dei precedenti e con la profilazione per impostare l’algoritmo relativo ai suoi destinatari: una giustizia gestita in realtà prima da praticanti avventizi nell’ufficio del giudice e destinata poi inevitabilmente a risolversi in una giustizia robotica? Questo mi preoccupa. Ecco perché considero lo stress-test della pandemia estremamente importante e perché vorrei sottolineare nella riflessione del collega Amato un altro elemento: l’insegnamento proposto dall’articolo 9 della Costituzione. Intendo riferirmi alla riscoperta di uno dei principi fondamentali di essa. L’articolo 9 – nel suo riferimento alla tutela del patrimonio storico-artistico da un lato e alla tutela del paesaggio dall’altro lato, non più inteso in senso solo estetico ma in senso globale come ambiente – si occupa del rapporto tra l’uomo e la natura. Questo rapporto tra passato e futuro è mediato e comprensibile soltanto attraverso la cultura. Il primo comma dell’articolo 9 richiama lo sviluppo della cultura; il secondo comma ammonisce di pensare al passato quando si deve progettare il futuro, perché senza passato non ci può essere futuro. Credo che questo avvertimento sia importante nel momento in cui – riprendendo quello che ha detto Amato – si colleghino il Vangelo e il magistero della Chiesa sul tema dei diritti fondamentali nella convivenza alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e alla Costituzione del nostro Paese. Siamo usciti da una catastrofe che non credevamo fosse possibile. La seconda guerra mondiale o meglio la prosecuzione e con essa la fine tragica della prima guerra mondiale è stata caratterizzata dalla Shoah, dalle armi di distruzione di massa, dal coinvolgimento delle popolazioni civili. Adesso si fa la guerra in altro modo, a distanza attraverso la tecnologia, con i droni. Abbiamo eliminato i filtri e le convenzioni del diritto sulla e nella guerra, ammesso che di filtri si trattasse. Ricordo accanto a questo che ci eravamo illusi di essere una società civile. Sono state abolite la pena di morte – penso a Cesare Beccaria – e la tortura; però in diversi paesi la pena di morte sopravvive e abbiamo scoperto che la tortura si può continuare a fare se pure entro certi limiti. E la si fa e la si pratica anche nel nostro civilissimo paese. Penso al G20, alle caserme di Bolzaneto. Penso alla vicenda emblematica di Stefano Cucchi e di molti altri anche in questi giorni. Penso a che cosa è capitato a Santa Maria Capua Vetere e in molti altre carceri quando si è vissuto all’interno di quelle carceri lo stress-test della pandemia. Infine la pena di morte è stata sostituita dal terrorismo su larga scala. Questo discorso mi fa pensare che non abbiamo valutato a sufficienza i rischi, i pericoli che affiancano gli enormi vantaggi della globalizzazione. Abbiamo trasformato o ci siamo illusi di poter trasformare il cittadino in un consumatore “usa e getta”; abbiamo emarginato prima con l’assuefazione, poi con metodi più energici i “diversi”. Quelli che non vanno bene alla società del benessere; quelli che non vanno bene alla società e al modo di vivere cui siamo abituati in un contesto che anche nella economia e nella finanza è riuscito a combinare i peggiori pasticci attraverso la finanza virtuale e attraverso le crisi che si ripetono a partire dal 2008 e sono aggravate dalle conseguenze della pandemia. Tutto questo lo ha ricordato recentemente – lo diceva nella sua relazione Amato e la nostra Corte aveva cominciato a fare qualche accenno in questo senso – una sentenza del Tribunale federale tedesco del marzo scorso. Si è cercato di inverare con essa una massima di estrema saggezza che mi pare era di De Gasperi: “L’uomo di Stato pensa alle prossime generazioni. Il politico pensa alle prossime elezioni”. Anche se è vero che per poter pensare alle prossime generazioni bisogna prima cercare di vincere le prossime elezioni. Ecco perché credo che a questo punto sia estremamente importante rivalutare sotto questo profilo l’articolo 9 della Costituzione. È la norma che con chiarezza – con la stessa chiarezza di altre norme che ci ha ricordato il collega, maestro della Costituzione – ci dimostra l’importanza di non elevare a sistema quel presentismo che è il modo con cui noi oggi invece affrontiamo la politica, l’economia, la vita sociale e tutto il resto. Passato? Non c’ero, perciò non ne rispondo. Futuro? Chi saranno e chi sono oggi i soggetti titolati a rappresentare il futuro? C’è un amministratore di sostegno dei nostri nipoti e dei nostri pronipoti? Non mi pare.Il problema è questo. La ricerca di un equilibrio tra diritti, valori e interessi contrapposti ha bisogno di un intervento come quello che a mio avviso la Corte costituzionale ha cercato e tuttora cerca di proporre. Considero per me positiva soprattutto l’esperienza dei nove anni alla Corte, nella ricerca collegiale di un equilibrio tra valori diversi che altrimenti possono confliggere. Penso alle sentenze con cui ad esempio la nostra Corte si è occupata della vicenda dell’Ilva, cercando di coordinare, di mettere in equilibrio il diritto alla salute, il diritto all’ambiente e il diritto al lavoro; e non è poco. Credo che questo discorso sia fondamentale: cercare di dare un minimo di concretezza a quelle che sono le situazioni più vistose delle diseguaglianze dei più deboli, che la Costituzione ci impone di tutelare in modo particolare. Penso ad esempio al dibattito sul fine vita senza ancora una soluzione; allo scontro tra intolleranti dall’una e dall’altra parte per giungere ad assicurare ai più fragili e sofferenti il diritto di morire con dignità; alla ricerca di un equilibrio in una società laica e pluralista come la nostra, da parte della Corte e finalmente ora anche da parte del legislatore. (1 - continua sul Dubbio di domani)