Voleva con piacere diventare capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria ( Dap) perché lo riteneva importante nella lotta alla mafia, soprattutto a seguito delle sue indagini sulla trattativa Stato- mafia dove il Dap – secondo la tesi giudiziaria – avrebbe ricoperto un ruolo importante. Lo ha spiegato ieri il consigliere del Csm Nino Di Matteo davanti alla commissione Antimafia per chiarire i motivi che l’hanno spinto ad accogliere la proposta iniziale che gli fece il ministro della Giustizia Alfonso Bonafede a giugno del 2018. Il consigliere del Csm ha, quindi, ripercorso gli eventi che sono al centro del dibattito dopo il suo intervento a Non è L’Arena, il programma di Massimo Giletti su la7..

«Nel 2018 ricevetti una telefonata dal ministro Bonafede – ha raccontato Di Matteo -, all’epoca ero sostituto procuratore antimafia e mi disse che aveva pensato a me come capo del Dap o come direttore degli Affari penali, ma su quest’ultima ipotesi il guardasigilli mi spiegò che quella nomina avrebbe avuto un ruolo simbolico visto che fu occupato da Falcone. Mi propose quindi di fare o subito il capo del Dap oppure di accettare un eventuale futuro ruolo agli affari penale se avesse convinto Donatella Donati a dimettersi da quell’incarico dato precedentemente dall’ex ministro Orlando». Il magistrato Di Mattero poi ha proseguito: «Il ministro mi disse che voleva una riposta immediata perché avrebbe voluto sfruttare il plenum del Csm per poter attivare la richiesta di collocamento fuori ruolo. Io, quindi, preso atto di questa urgenza egli riferì che l’indomani mi sarei recato direttamente da lui per fornirgli una risposta».

Di Matteo ha poi aggiunto che, sempre al telefono, disse al guardasigilli che c’è una nota del Gom dove riferisce delle proteste di alcuni detenuti al 41 bis contro una sua eventuale nomina. «Mi colpì il fatto – ha spiegato sempre Di Matteo alla commissione antimafia - che in quella nota era allegata una relazione nella quale veniva riportato un episodio di un detenuto al 41 bis che dette l’ordine, urlando da un piano all’altro, di fare una istanza al magistrato di sorveglianza per lamentarsi. Il ministro mi disse di essere informato delle reazioni, senza scendere nei particolari».

Di Matteo ha spiegato che sempre quello stesso pomeriggio, oltre ai suoi familiari, riferii la telefonata a qualche suo collega amico e anche al giornalista Saverio Lodato. «Il giorno dopo – ha spiegato sempre Di Matteo sono andato dal ministro Bonafede con l’intenzione di dirgli che avrei accettato l’incarico di capo del Dap. Non ho avuto dubbi ad accettare quell’incarico – ha sottolineato - perché molte indagini giudiziarie mi avevano fatto saper comprendere quanto una gestione corretta ed efficace del sistema penitenziario sarebbe stato importante per combattere la mafia. Tutto questo è stato soprattutto grazie all’indagine sulla trattativa e le stragi in generale!”.

Di Matteo ha spiegato che si incontrò con Bonafede, presso il ministero della Giustizia, alle 11 di mattina del 19 giugno 2018 e disse subito che accettava l’incarico al Dap. «A quel punto – ha proseguito con il racconto-, con mia sorpresa, Bonafede mi disse che in fondo il capo del Dap non era adatto a lui, visto che aveva compiti come la gestione degli appalti, il rapportarsi con i sindacati di polizia penitenziaria, opere trattamentali. Ma io gli riposi - ha raccontato di Matteo - che noi che abbiamo fatto l’indagine a Palermo, sappiamo quanto sia stato importante il sistema penitenziario per il 41 bis e la trattativa e che anche l’aspetto di quel tipo di detenzione è importante visto che ancora sono reclusi diversi capi storici della mafia». Ma nulla da fare. Di Matteo ha spiegato che quello stesso giorno Bonafede avrebbe già scelto Francesco Basentini come capo del Dap facendo la richiesta al Csm e che avrebbe insistito per fargli accettare di ricoprire il ruolo agli affari penali perché non c’erano – avrebbe detto Bonafede - “dinieghi o mancati gradimenti che tengano”».

«Quell’amarezza l’ho tenuta per me – ha spiegato accoratamente Di Matteo -, quei fatti l’ho raccontati a pochissime persone tra cui Tartaglia, Ingroia, Piscitello, Ardita. Oltre a Saverio Lodato, altri giornalisti lo sapevano e volevano dichiarazioni ma non volevo rilasciare interviste per motivi istituzionali perché non volevo delegittimare il ruolo del ministro». Ma poi cosa è accaduto? Nell’ultimo periodo, prima dell’intervento nella trasmissione di Giletti, secondo Di Matteo sarebbero accadute molte cose strane. Quali? Le rivolte carcerarie, le centinaia di “scarcerazioni” di soggetti detenuti per mafia, la famosa circolare del 21 marzo, le dimissioni di Basentini. «Iniziavano a filtrare le voci che il capo del Dap sarei stato io. Alcuni giornali – ha spiegato Di Matteo - facevano polemiche sul mio nome. Poi quando da Giletti dissero che c’erano state trattative per il mio nome, allora sono intervenuto». Di Matteo ha ribadito anche che, secondo lui, le rivolte carcerarie e la scarcerazione dei mafiosi ( in realtà si tratta di detenzione domiciliare) avrebbero analogie con la trattativa che sarebbe avvenuta nel 1993.

Ancora una volta ritorna il feticcio del teorema della trattativa che, ricordiamo, non ha nessuna sentenza definitiva che lo consolidi, mentre sono definitive altre sentenze che sconfessano tale tesi. Ricordiamo anche che il Dap non può essere gestito come se fosse una specie di succursale di qualche procura dell’antimafia e nemmeno può essere diretto secondo una visione dietrologica degli avvenimenti. La gestione delle carceri richiede una visione generale che tenga conto di bisogni educativi, di integrazione sociale, di salute e di sicurezza. Non può ridursi al 41 bis o alta sorveglianza che rappresenta una piccolissima percentuale della popolazione detenuta. Nel frattempo i componenti della commissione Antimafia richiedono a gran voce di essere audito Bonafede. Si vorrà chiarire una volta per tutte cosa sia accaduto e, soprattutto, chi gli ha fatto cambiare idea sulla scelta di Di Matteo