È un caso lampante. Emblematico. Già quando il 10 dicembre del 2020 Nunzia De Girolamo e altri 7 imputati nell’indagine sulla presunta corruzione all’Asl di Benevento vennero assolti in primo grado dal Tribunale sannita, apparve chiaro il vulnus profondo del sistema penale, che impiega anche 7 anni (l’inchiesta nasce nel 2013) per accertare l’innocenza di una persona, nel frattempo costretta a perdere tutto. Ma quando ieri la Corte d’appello beneventana ha confermato la pronuncia di primo grado, è emersa un’altra cosa con estrema chiarezza: l’assurdità di un meccanismo che consente alla pubblica accusa il ricorso contro le assoluzioni. È una riforma, quella che vieterebbe l’appello del pm contro chi è stato riconosciuto innocente, «invocata come assoluta priorità da noi dell’Unione Camere penali», spiega, al Dubbio, Gian Domenico Caiazza, che dei penalisti italiani è presidente. «Ci siamo rivolti al Parlamento, e dalle risposte ottenute sembra manifestarsi una maggioranza amplissima, nelle nuove Camere, a favore di questa modifica, per noi essenziale». Caiazza è anche il difensore di De Girolamo, insieme con l’avvocato Domenico Di Terlizzi, nella lunga e dolorosa vicenda di Benevento. Lei, la protagonista più visibile, ha commentato stamattina su twitter: «Per il linciaggio mediatico, nel 2014, mi sono dimessa da Ministro. Non ero nemmeno indagata. Prime pagine, titoli roboanti. Per l’assoluzione, invece, tre righe per le quali serve il binocolo. Io mi dimisi, oggi nessuno ha coraggio di chiedere SCUSA. Questione di stile, credo». Difficile darle torto. Difficile non comprendere la sua rabbia. Ma non si tratta di un paradosso che riguarda solo le persone particolarmente esposte come i politici. Come l’ex ministra delle Politiche agricole, adesso apprezzata conduttrice tv, costretta a lasciare non solo il governo, nel 2014, ma la politica tout court. «Perché nel momento in cui ti viene scaricata addosso un’accusa di associazione a delinquere finalizzata alla corruzione, be’, hai poco scampo», osserva Caiazza. Che si sofferma su quell’aspetto, lampante: «Il caso De Girolamo rimanda alla riforma da noi reclamata. In modo chiarissimo. Fa emergere tutti i danni che possono derivare dal ricorso su un’assoluzione. Iniziativa che tiene in piedi il procedimento, l’ipotesi accusatoria. E che dunque vanifica il proscioglimento. Con conseguenze di reputazione ed economiche tangibili, per l’imputato». Ecco. Si deve mettere a fuoco la condizione dell’assolto che non vede finito «l’incubo», come lo ha definito l’ex ministra. «C’è un vizio di sistema», dice ancora Caiazza al Dubbio. «È chiaro che l’impugnazione in molti casi è pretestuosa. Come nel processo in cui ho difeso De Girolamo, il magistrato che ricorre sembra non tener conto di risultanze evidenti. Ci si può innamorare della propria indagine. Ma non è solo questo. È che sul piano professionale, si è quasi costretti a non rassegnarsi al verdetto assolutorio. Il magistrato dell’accusa che accetta la sentenza di proscioglimento dichiara implicitamente che le sue ipotesi erano sbagliate, che tutta la sua indagine è stata sbagliata. E qual è il pm disposto a esporsi in questi termini? D’altronde, se insiste, come nel caso del processo sull’Asl di Benevento, e viene di nuovo smentito, non paga. A pagare è solo l’imputato». Dovrebbe restare solo la possibilità di ricorrere per Cassazione. Opzione presidiata da una norma costituzionale. «Certo», osserva il presidente dell’Unione Camere penali, «ma se invece il ricorso per Cassazione si somma all’impugnazione di merito, i tempi diventano insostenibili, al punto da stritolare una persona». E infatti, dopo due giudizi di merito, anche in un caso come quello di De Girolamo e degli altri 5 imputati trascinati in secondo grado e, come lei, di nuovo assolti (Giacomo Papa, Luigi Barone, Michele Rossi, Felice Pisapia e Arnaldo Falato), il ricorso del pm al giudice di legittimità è tuttora una minaccia. Dopo 9 anni di procedimento, se ne potrebbero aggiungere un altro, o altri due. «E già trascorsero quattro anni tra l’avvio dell’indagine e l’inizio del primo grado. De Girolamo si è dimessa da ministra. Ha dovuto cambiare mestiere. Pensiamo anche al libero professionista, all’imprenditore, al pubblico dipendente che resta prigioniero del processo seppur assolto. E quando pure in appello arriva una condanna, dove va a finire il principio del ragionevole dubbio? Come posso essere tranquillizzato da una pronuncia di colpevolezza emessa da tre giudici in secondo grado dopo che altri tre giudici avevano prosciolto l’imputato? Siamo di fronte a un paradosso non sopportabile», ribadisce Caiazza, «il Parlamento, ora che le condizioni ci sono, non può fare a meno di intervenire».