Ricorda molto i festeggiamenti per i 150 anni dell’Unità d’Italia. Durarono un anno intero. Soltanto che invece di celebrare l’Anniversario della proclamazione ufficiale della nascita del Regno d’Italia, si celebra il venticinquennale delle manette ai polsi di Mario Chiesa, il “mariuolo”, come disse Bettino Craxi, il cui arresto, avvenuto il 17 febbraio del 1992 mentre stava intascando una tangente di sette milioni di lire al Pio Albergo Trivulzio, diede il via a Tangentopoli.

Dal mese scorso, infatti, si susseguono i dibattiti, le tavole rotonde, gli incontri pubblici per commemorare, come avviene per le nozze, le “manette d’argento”. Numerosi, poi, gli articoli di giornale e i servizi in televisione con le immagini d’epoca in cui si vedono sfilare i tangentisti, o presunti tali, con i ferri al cospetto del Pool di Milano.

Ma i veri protagonisti sono loro: Piercamillo Davigo, Gherardo Colombo e Antonio Di Pietro. Come una vecchia rock band che propone da sempre lo stesso repertorio, da settimane girano l’Italia per raccontare come alcuni pubblici ministeri della Procura di Milano, un quarto di secolo fa, riuscirono nell’impresa di spazzare via la Prima Repubblica. Uno degli ultimi incontri è avvenuto a Merate ( Lc), nell’auditorium del collegio Villoresi. Ospiti delle suore della congregazione di Maria Consolatrice, i tre - Gerardo D’Ambrosio è mancato nel 2014 dopo essere stato anche parlamentare del Pd - hanno raccontato l’età dell’oro della custodia cautelare. A supportarli, Piero Colaprico, giornalista di giudiziaria di Repubblica e, per altro, colui che coniò il termine Tangentopoli.

Davanti a un folto ed eterogeneo pubblico, moderatore l’ex magistrato Piero Calabrò, già presidente facente funzione del Tribunale di Lecco e fondatore della Nazionale italiana magistrati di calcio, i reduci del Pool di Milano hanno descritto un’Italia dove si rubava su tutto e dove le tangenti erano ugualmente distribuite fra i vari partiti dell’arco costituzionale. Tranne Democrazia Proletaria e il Movimento sociale italiano.

Antonio Di Pietro si è lasciato andare all’aneddotica. Due episodi meritano di essere ricordati. Il primo: gli interrogatori “multitasking”. Per evitare che gli indagati comunicassero fra loro, anche tramite i loro avvocati, Di Pietro era solito convocarli tutti insieme in una stanza del Palazzo di giustizia di Milano dove erano presenti 11 postazioni con dei computer. Alla tastiera e al mouse personale delle Forze di polizia, carabinieri, finanzieri, vigili urbani. Un gioioso mix di divise al servizio di Tonino da Montenero di Bisaccia. Qui, come Garri Kasparov senza gli scacchi ma con la toga, si alternava di postazione in postazione interrogando i vari malcapitati. Spesso membri di consigli di amministrazione di società sospettate di pagare le mazzette. Questo stratagemma serviva ad impedire che venissero concordate le varie deposizioni, inchiodando in tal modo i rei alle loro responsabilità. Il secondo aneddoto è degno dei migliori film polizieschi degli anni 70. In un’occasione, infatti, Di Pietro prese dei faldoni, li fece riempire con carta di giornale per fare spessore e li posizionò sulla scrivania. Quando entrò l’imputato, il pm disse: «Queste sono le contestazioni alle quali deve rispondere. Da dove cominciamo? Ne prendo una caso?». Cosi facendo terrorizzò l’indagato che confessò tutto.

L’intervento di Davigo, unico fra i tre ancora in servizio e fino al prossimo sabato presidente in carica dell’Associazione nazionale magistrati, ha toccato anche argomenti di attualità, dopo una premessa: la magistratura italiana è la migliore del mondo occidentale e i magistrati italiani sono i più produttivi, efficienti, ecc.

Dopo questo postulato, Davigo si è concentrato sul dibattito di questi giorni sul rapporto magistratura/ politica. La risposta è stata tranchant. «Il problema non sono i magistrati in politica ma la politica che corre a candidare i magistrati». Prima di lamentarsi delle toghe in Parlamento, la politica dovrebbe pensarci bene. Per il resto, il sistema va bene cosi. E guai a separare le carriere fra pm e giudici.