Il primo dicembre 2019 un articolo su "Millennium", rivista del Fatto Quotidiano, inseriva Samuele Bertinelli tra “Le Pagine gialle dei 219 inquisiti”. Una lista di proscrizione lunga 12 pagine, nella quale ogni politico, ogni amministratore, veniva automaticamente identificato - spesso ancor prima di un processo - con l’accusa a suo carico, a prescindere da tutto. Un «censimento» dei componenti del «partito erede di Berlinguer» per dichiarare la morte della «questione morale». Due anni e due mesi dopo quell’elenco, e otto anni dopo una lunga trafila giudiziaria, l’ex sindaco di Pistoia Bertinelli si è però sentito dire da un Tribunale che non ha commesso alcun reato. E non solo: a dirlo, poche settimane prima, era stato anche il pubblico ministero. Alla fine, dunque, Bertinelli da quell’elenco è stato - almeno idealmente - depennato. Così come l’ex assessore alle politiche economiche Tina Nuti (attualmente consigliera comunale) e l’ex dirigente del comune di Pistoia, Maria Teresa Carosella. Bertinelli, all’epoca giovane sindaco in ascesa e tra i nomi nuovi del Pd, è stato infatti assolto martedì dall’accusa di induzione indebita e abuso d’ufficio «perché il fatto non sussiste». Insomma, non aveva fatto nulla e nulla di penalmente rilevante, in effetti, era proprio avvenuto. Il processo ruotava intorno alle modalità di selezione di alcuni dirigenti comunali e alle presunte pressioni esercitate affinché fossero concessi contributi e utilizzo di spazi pubblici ad alcune associazioni del territorio. Accuse ritenute infondate, ma che avevano stroncato la carriera di Bertinelli proprio ad un mese dalla presentazione delle liste per le amministrative del 2016 a Pistoia, alle quali l’allora sindaco in carica aveva intenzione di partecipare. Trenta giorni prima della scadenza per la presentazione delle candidature, infatti, una clamorosa fuga di notizie aveva fatto venir fuori la notizia di un avviso di garanzia a suo carico. Bertinelli, il 4 agosto, convocò una conferenza stampa per smentire tutto. Ma poco dopo si vide notificare l’atto che sanciva l’inizio del suo calvario e la fine delle sue aspirazioni politiche. Un copione ormai sempre più comune, messo in atto anche grazie alla decisione di parte del suo stesso partito di abbandonarlo al suo destino, scaricandolo in fretta e furia e lasciandolo ad affrontare da solo la campagna elettorale. Cinque anni e otto mesi dopo, dunque, la macchina della giustizia ha emesso il suo verdetto. Ma quella della gogna ci ha messo molto meno, congelando la sua carriera in un batter d’occhio. «Siamo soddisfatti - ha commentato al Dubbio il professore Vittorio Manes, difensore di Bertinelli insieme all’avvocato Giovanni Sarteschi -, perché, pur dovendo ovviamente attendere le motivazioni, ogni contestazione è stata evidentemente ritenuta infondata. Cosa che, peraltro, avevamo ritenuto sin dall’inizio e comprova l’assoluta correttezza e trasparenza nell’azione amministrativa da parte dell’ex sindaco, persona di raro rigore nella gestione della cosa pubblica e nel rispetto della legge. Ovviamente resta l’amarezza di constatare una anomalia tutta italiana, che consente ad accuse, pur evidentemente così fragili, di condurre a cinque anni di processo e di dover attendere una decisione, in questo caso di un collegio di giudici molto equilibrato e sereno come quello che abbiamo avuto la fortuna di avere, per arrivare ad un chiarimento. Purtroppo, però, le conseguenze professionali, politiche e personali si sono già prodotte. Il diritto penale è uno strumento anzitutto a difesa dell’innocente e questa consapevolezza dovrebbe arrivare molto prima». Manes ha anche evidenziato un’altra anomalia, ovvero quella che consente con facilità di far finire nel radar del procedimento penale chi gestisce funzioni amministrative, meccanismo che finisce per selezionare l’impegno politico in negativo. «Il rischio penale è talmente alto e le conseguenze così gravose che in pochi si prestano a fare attività politica - ha sottolineato -. Lui ha patito moltissimo questa vicenda, come tutti coloro che devono attraversare un calvario di cinque anni per accuse che si rivelano del tutto infondate. Un’interruzione di questa sofferenza sarebbe dovuta arrivare prima. Di fatto, la politica fa scattare il suo ostracismo con la semplice sottoposizione al processo e questo determina l’interruzione di carriere politiche di fronte al minimo barlume di notitia criminis». Una vera e propria «patologia», determinata da una sinergia di fattori: «Un malinteso rigore dell’obbligatorietà dell’azione penale, perché ad ogni piccolo esposto si apre un procedimento, la scarsezza dei filtri da parte del pm, la scarsezza di istituti di deflazione processuale in sede preprocessuale e l’assoluta inutilità dell’udienza preliminare, che non fa alcun filtro». A ciò si aggiunge l’altissimo numero di reati, spesso connotati da contorni poco chiari. «Ci vorrebbe un surplus di cautela - ha concluso Manes -, perché per chi esercita la funzione amministrativa qualsiasi atto ha delle conseguenze positive o negative in capo agli amministrati, ma non ogni conseguenza merita per ciò solo di innescare un procedimento penale».