Il 14 febbraio scorso, davanti al Tribunale di Napoli, è iniziato il processo a tre giovani del Sud Sudan, in carcere da oltre 5 mesi per aver condotto un’imbarcazione in condizioni precarie, con a bordo 80 persone, dalle coste Libiche fino al salvataggio nel Mar Mediterraneo. Allo sbarco, il 28 agosto, i tre uomini, poco più che ventenni, sono stati sottoposti a interrogatori serrati, riconosciuti come capitani, quindi arrestati e tradotti nel carcere di Poggioreale. Come accade sistematicamente nei confronti dei capitani l’applicazione della misura cautelare del carcere è stata motivata con l’assenza di una dimora stabile in Italia, che diviene sintomatica del “pericolo di fuga”, e con il “rischio di reiterazione del reato”. In altre parole, le circostanze in cui avviene la migrazione, e in particolare la fuga dalla Libia, vengono lette immediatamente attraverso la prospettiva del traffico internazionale di persone e gli schemi del reato associativo. Semplificando, per la Destra il cosiddetto scafista è stato costruito come il colpevole principale di una “invasione di extracomunitari”. Per la Sinistra, invece, il cosiddetto scafista troppo spesso è stato individuato come il colpevole dei naufragi e delle morti in mare. In entrambe le visioni è comunque una figura che lucra e sfrutta, se non addirittura un carnefice all’interno dei meccanismi prodotti dai regimi di frontiera.

Parliamo appunto dei cosiddetti “scafisti”. Come spiegano, in un comunicato, le associazioni Legal Clinic Roma Tre, Progetto “dal Mare al Carcere”, Arci Porco Rosso, Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione, Antigone Campania, Mem. Med- Memoria Mediterranea, i tre capitani hanno ammesso le condotte loro imputate, ribadendo di aver agito in stato di necessità, per salvare se stessi e le altre persone a bordo. Per essere accusati e processati per il reato di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare non è necessario che vi sia un qualsivoglia fine di profitto, né servono prove dell’appartenenza a presunte organizzazioni di trafficanti.

Le accuse, infatti, criminalizzano quelle azioni da cui – proprio come nel film “Io Capitano” di Matteo Garrone – può dipendere la vita o la morte di chi attraversa il mare per raggiungere l’Europa. Come sottolineano le associazioni, il caso dei capitani sudanesi mostra quello che nel film di Garrone rimane sullo sfondo, ovvero il carcere che ogni anno in Italia attende allo sbarco centinaia di persone migranti.

Per capire questo fenomeno volto alla criminalizzazione degli scafisti, basterebbe leggere il rapporto del progetto “Dal mare al carcere” redatto dal circolo Arci “Porco Rosso” di Palermo con il sostegno della rete transnazionale “Watch the Med – Alarm Phone”, in collaborazione con le onlus Borderline Sicilia e borderline- europe. Ebbene, negli ultimi dieci anni sono, infatti, almeno 3.200 le persone arrestate e processate per il reato di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare. Eppure, come analizza bene il rapporto, sono accuse molto spesso dannose. Si tratta di un fenomeno molto complesso, in cui le persone che guidano le barche lo fanno per un’ampia serie di motivi che sono difficili da semplificare, ma che di base sono l’ultimo anello di una rete molto più grande, i cui vertici rimangono nell’ombra. In più, queste persone, lontane dall’essere colpevoli per le morti in mare, sono spesso anche loro migranti ai quali è stato impedito l’ingresso in Europa, e che rischiano le proprie vite per attraversare le frontiere. Queste vicende si dispiegano nelle maniere più varie: dalle persone inserite in sistemi di sfruttamento, violentemente forzate a guidare un’imbarcazione, a persone che si rendono protagoniste di importanti atti di eroismo e solidarietà per salvare le vite delle altre persone che trasportavano. In alcuni casi, entrambe le cose.

LA VIOLAZIONE DEL PRINCIPIO DI INNOCENZA

Il progetto “Dal mare in carcere” ha quindi gettato luce su una verità scomoda ma fondamentale: la criminalizzazione degli “scafisti” non solo manca di garantire la sicurezza dei migranti nel Mediterraneo, ma contribuisce attivamente a mettere a rischio le loro vite.

Il rapporto mette in discussione l'approccio politico e giudiziario che, sotto il pretesto di perseguire coloro che facilitano il transito dei migranti attraverso il mare, finisce per compromettere gravemente i diritti umani e aggravare la già precaria situazione dei migranti. Un punto cruciale evidenziato nel rapporto è l'osservazione che il perseguimento degli “scafisti” spesso si basa su metodi approssimativi e parziali, trascurando l'approfondimento delle dinamiche reali dei fatti. Questo approccio non solo compromette la possibilità di una difesa piena ed effettiva per gli imputati, ma può anche portare a condanne ingiuste e pesanti, violando il principio di presunzione di innocenza. Inoltre, la vita in carcere per coloro che vengono condannati come “scafisti” è spesso più afflittiva, con maggiori difficoltà di accesso alle misure alternative alla detenzione.

Una conseguenza diretta di questa politica è che i migranti si trovano spesso ad affidarsi a capitani inesperti o a essere coinvolti in viaggi clandestini più rischiosi a causa della paura delle conseguenze legali. La criminalizzazione nei paesi di partenza può anche accelerare i tempi di organizzazione dei viaggi, portando a scelte affrettate e pericolose. Durante il viaggio stesso, le pratiche adottate dagli “scafisti” per evitare l'identificazione mettono ulteriormente a rischio la vita dei migranti, come nel caso delle rotte in cui ai passeggeri è vietato emergere dalla stiva, aumentando il rischio di asfissia.

Inoltre, durante le operazioni di soccorso, le risorse vengono spesso concentrate sull'identificazione degli “scafisti”, invece che sulla cura e l'assistenza immediata ai migranti. Questo approccio distorce le priorità, ritardando interventi cruciali e mettendo a repentaglio ulteriormente la vita di chi è in pericolo in mare. Le associazioni che hanno redatto il rapporto, presentano quindi una serie di raccomandazioni volte a porre rimedio. In primo luogo, si sottolinea l'importanza di rivedere le politiche migratorie attuali, abbandonando l'approccio basato sulla militarizzazione e la chiusura delle frontiere. Allo stesso tempo, si invita a porre fine alla criminalizzazione dell'aiuto alle persone che attraversano i confini e a concentrare le risorse sull'accoglienza anziché sulla persecuzione penale dei migranti e di coloro che li assistono. Tra le raccomandazioni chiave, vi è la richiesta di abolire gli articoli di legge che criminalizzano il trasporto dei migranti senza una chiara prevalenza dell'interesse alla tutela dei confini sulle vite e i diritti dei migranti stessi. Si insiste inoltre sull'importanza di garantire un accesso equo e completo alla difesa legale per coloro che sono accusati di favoreggiamento, nonché sulla protezione dei diritti dei testimoni coinvolti nei procedimenti giudiziari. Il rapporto solleva anche la questione della revoca delle restrizioni alla detenzione domiciliare per coloro che sono condannati, evidenziando la necessità di valutare la pericolosità sociale su base individuale anziché attraverso misure generalizzate e discriminatorie.

Un punto critico delle raccomandazioni è la necessità di riconoscere lo stato di necessità nei procedimenti penali, consentendo alle persone coinvolte di difendersi dalle accuse in base alla necessità di salvare sé stessi o gli altri. Questo approccio, sostenuto dal principio fondamentale della solidarietà umana, potrebbe contribuire a ridurre la criminalizzazione delle azioni volte a salvare vite umane. Infine, esortano le autorità a porre fine all'abuso delle misure cautelari e a garantire un trattamento umano e rispettoso dei diritti fondamentali dei migranti detenuti, compresi i richiedenti asilo.