«La mia è una guerra contro chi queste cose le fa più per mestiere che per giustizia». A parlare è Ambrogio Pancanno, titolare della Panges, azienda di prefabbricati attiva in Calabria dal 1978 e ora al collasso dopo due interdittive antimafia. «Queste cose», appunto, delle quali l’imprenditore ha parlato in una lettera indirizzata al presidente del Consiglio Giuseppe Conte e che nel nome della sacrosanta lotta alla criminalità organizzata rischiano di trascinare nel fango anche le imprese sane. «Quotidianamente, decine di imprese ed aziende cadono sotto la falce delle interdittive antimafia - scrive Pancanno -, strumento valido ed eccezionale, se usato con doverosa cura, ma che, invece, se utilizzato con poca attenzione, in via generalista, sortisce l’effetto opposto, al pari di un’arma di distruzione di massa, che sta distruggendo un intero tessuto aziendale». La situazione della Panges è oggi difficilissima, al punto che il titolare dell’azienda ha chiesto allo Stato, per evitare di mandare a casa i propri dipendenti, l’applicazione di un controllo giudiziario. «Avevo 20 operai, ora ne ho otto e sono passato da un fatturato di 8 milioni a 500mila euro - spiega -. Ho chiesto più volte di essere ricevuto dalla Prefettura per rivalutare le circostanze alla base dell’interdittiva, visto che la Finanza non ha rilevato situazioni anomale. Ma non mi hanno mai risposto. Roba da suicidio». L’ultimo capitolo di questa storia è la revoca di un finanziamento di circa 880mila euro con- cesso dal Mise nel 2015 per la realizzazione di una centrale di betonaggio con impianto fotovoltaico, opera realizzata e ispezionata da funzionari del ministero, che aveva precedentemente chiesto alla Prefettura di Reggio Calabria le certificazioni antimafia necessarie. Ma la Prefettura, che avrebbe dovuto rispondere entro 15 giorni, ha emesso l’interdittiva soltanto un anno dopo la richiesta. Un tempo lunghissimo, che però non ha impedito al ministero di chiedere indietro tutto il malloppo - che Pan- canno aveva in parte già restituito , maggiorato però di interessi e mora. Illegittimamente, secondo l’imprenditore. «Se così non fosse - aggiunge -, si lascerebbe al ministero la facoltà di revocare le agevolazioni, in qualsivoglia momento, anche a distanza di vent’anni rendendo, così, la clausola di risoluzione del contratto assolutamente aleatoria». Ma anche tutte le imprese con cui la Panges aveva rapporti contrattuali hanno presentato richiesta di risoluzione contrattuale e applicazione della penale del 10 per cento. L’interdittiva ha quindi portato Pancanno al fallimento: pur non avendo rapporti diretti con la pubblica amministrazione e producendo beni di uso comune, gli stessi sono utilizzabili soltanto per le grandi opere. E chiuse le porte del pubblico, l’unica alternativa è mollare tutto.

Ma torniamo alle interdittive. Perché quella del 2015, in realtà, altro non è se non una riedizione di un’altra informativa risalente al 2009, annullata poi definitivamente dai giudici amministrativi. La Prefettura contestava, in sostanza, frequentazioni «con qualificati esponenti della criminalità organizzata», portando Pancanno alla perdita di tutte le commesse e al pagamento di penali che lo avevano già spinto sull’orlo del fallimento. Ma quelle frequentazioni sono state derubricate dal Tar a «normali rapporti d’affari tra un venditore e il suo cliente». Insomma: l’imprenditore vendeva materiale a chi lo richiedeva, non potendo dunque fare discriminazioni tra un acquirente e l’altro. «Per essere rilevanti - si legge nella sentenza -, le frequentazioni devono essere reiterate, o comunque ripetute, costanti, non meramente occasionali, e dunque significative di una affettività ed una comunanza di interessi che le renda veicolo o manifestazione della sussistenza di un effettivo legame interpersonale». E devono, in ogni caso, avere connotati illeciti. Circostanze che, si legge nella decisione, non sussistevano nel caso di Pancanno. Ma ciò non è bastato: nonostante la seconda interdittiva sia identica alla prima, sia il Tar sia il Consiglio di Stato hanno respinto il ricorso. Quest’ultimo contraddicendo le sue stesse affermazioni, quando in sede cautelare aveva confermato che dalla nuova istruttoria della Prefettura non erano emersi «nuovi indizi precisi e concordanti» a sostegno del pericolo di infiltrazione mafiosa. Insomma, l’interdittiva, nel caso di Pancanno, «ha avuto un carattere definitivo e non temporaneo». Da qui l’appello di Pancanno a Conte per salvare il «fragile tessuto imprenditoriale» calabrese, costretto a lottare non solo contro la malavita, ma anche contro lo Stato che, mentre combatte la criminalità, applica «indiscriminatamente i validi strumenti di legge contro tutte le imprese che hanno la sola “colpa” di essere accomunate da un unico fattore: “la meridionalità”». Considerata, dunque, «sinonimo di delinquenza».