Il Dubbio ha incontrato Bruno Contrada, prima della sentenza della Cassazione, e proprio in questa intervista ci aveva confidato: «Mi aspetto che le autorità competenti dello Stato italiano, quelle giudiziarie e amministrative, applichino l’articolo 46 della Convenzione europea, ratificata a suo tempo dall’Italia con tanto di legge. Quella Convenzione stabilisce che “le parti contraenti si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive dalla Corte europea, nelle controversie delle parti”. E la mia è una sentenza definitiva».

Prima dell’arresto, lei aveva ottenuto cento riconoscimenti per operazioni di servizio e nove promozioni. Da «emblema della lotta alla mafia» a «colluso con Cosa nostra» : ha rimpianti?

Sono più di cento, i riconoscimenti, tra Polizia e Sisde. Ma poi ci sono quelli della Dea, l’antidroga americana. Quanto agli encomi di magistrati, ne cito uno solo: quello di Giovanni Falcone. No, non ho rimpianti per tutto ciò che ho fatto. Ho soltanto sentimenti di indignazione, di rivolta morale. E di disprezzo per chi non ha saputo o voluto riconoscere il mio operato al servizio dello Stato e delle istituzioni, cui ho dedicato tutta la mia esistenza.

Per 25 anni lei non ha mai smesso di proclamarsi innocente. Ha detto: «Nessuna delle accuse che hanno devastato la mia vita risponde al vero». Ma a Palermo, sostengono, «si uccide anche con la calunnia» ? È davvero il suo caso?

Chi opera contro la mafia e i mafiosi e ottiene risultati rischia di essere annientato dal piombo o dal fango. Chi invece si atteggia o simula, per vanagloria o per protagonismo, prima o poi cade nel ridicolo e nel disprezzo. Nel mio caso il Miles gloriosus non ha mai avuto un ruolo. È cronaca.

Chi ha usato la menzogna contro di lei?

Le menzogne e le calunnie proven- gono principalmente dalle dichiarazioni indubbiamente interessate di un nugolo di criminali mafiosi: alcuni sono di alto livello, altri di basso rango. Molto di loro erano stati da me perseguiti, indagati. In alcuni casi ottennero anche pesanti condanne.

I nomi?

Certo: gli uomini del clan Marchese e Gaspare Mutolo. Mafiosi che si sono resi responsabili di crimini mostruosi, e che io avevo fatto arrestare e perseguire. Mi avevano minacciato di morte. Poi sono diventati pentiti e sono diventati i principali accusatori nei miei confronti…

Contro di lei, però, hanno parlato anche funzionari dello Stato.

Più che funzionari, amministratori. Come in ogni ambiente di lavoro, dove non si creano soltanto amicizie, ci sono sciacalli, iene, che covano gelosie, invidie, maldicenze incomprensibili e inspiegabili rancori. Aspettano come corvi il tuo momento di debolezza, per avventarsi contro di te. E lo fanno sempre alle spalle.

Ha scritto un libro con Letizia Leviti, la giornalista di Sky tg24 morta a luglio dell’anno scorso.

S’intitola La mia prigione, storia vera di un poliziotto a Palermo.

Racconta la sua vita, analizza la sua vicenda giudiziaria e lancia accuse molto pesanti contro alcuni pentiti e alcuni magistrati. È mai stato querelato?

No. Mai una querela, né una richiesta di rettifica. Silenzio assoluto. Ho conosciuto Letizia e ho deciso di scrivere questo libro con lei nel 2012: non per difendermi, perché quello l’ho fatto e lo faccio nei tribunali. Ma per far conoscere i fatti alla gente. La verità. Certo, non mi aspettavo, alla fine di una bella carriera, di essere «impagliato» e di avere la vita devastata. Non pretendevo decorazioni al valore, ma almeno un grazie per aver servito le istituzioni. Adesso la giustizia che non ho trovato nel mio Paese, nella mia Patria, e preciso con la P maiuscola, l’ho trovata a Strasburgo.

Nel libro, lei ricorda che la sua stessa vicenda giudiziaria ha coinvolto persone a lei vicine. Chi sono?

Sì: è accaduto a un mio collaboratore, Ignazio D’Antone, questore della Polizia, anche lui accusato di concorso esterno. È un validissimo servitore dello Stato.

Perché ha fatto il poliziotto? In quali valori credeva?

In quelli in cui sono sempre cresciuto nella mia famiglia, fin da bambino: la Patria, la stessa famiglia, i rapporti umani, la giustizia, la solidarietà umana, la religione. Questi valori mi hanno sempre accompagnato. E io non ho mai mollato: sono sempre stato in prima linea contro la criminalità organizzata, la mafia.

E oggi?

Continuo a crederci. Non credo più, invece, in alcuni uomini che pure rappresentano lo Stato e dicono di essere portatori degli stessi valori cui mi sono sempre ispirato.

Conosciamo Contrada per le sue battaglie contro Cosa nostra prima, e poi per l’impegno a difendersi nei processi. Ma com’è l’uomo Contrada?

Sono al termine della mia esistenza. Ho quasi 86 anni. Credo di essere un nonno amorevole con i miei nipotini. Ma sarò sempre impegnato fino all’ultimo respiro, all’ultimo attimo della mia vita affinché sia fatta piena luce, verità e giustizia sulla vicenda che ha devastato la mia vita e quella della mia famiglia. Questa storia ha addolorato, angustiato, anche i miei amici più cari: capi della Polizia, funzionari del Sisde, agenti semplici, carabinieri, generali, che nel corso di questa odissea mi sono sempre stati vicini.

Vizia i suoi nipoti?

No. Anche se, quando vengono da me, fanno disordine in casa o rompono qualcosa, anche oggetti di valore: li giustifico. Sempre. D’altronde, un nonno c’è proprio per quello…

Quali sono le sue passioni ora?

Leggo libri di storia: il Risorgimento, l’unità d’Italia. In particolare la storia della mia Napoli e della Sicilia tra ‘ 800 e ‘ 900. Adoro Lev Tolstòj e Honoré de Balzac. Di loro ho letto tutto. E poi Leonardo Sciascia.

Se la sua vita fosse un’opera letteraria, quale sarebbe?

Tante insieme: penso a Il crogiuolo, il dramma di Arthur Miller, con la sua caccia alle streghe. Ma anche a Franz Kafka. E a Gioacchino Murat, soprattutto per la sua morte.

A proposito di morte, ci pensa mai?

Certo… Anzi, è un pensiero costante, non c’è giorno che non mi passi nella testa. Però con molta serenità e consapevolezza. Ho un solo problema vero, prima di morire: la mia riabilitazione.

Quale sarà il suo testamento spirituale?

Non fare mai del male. Mai. A nessuno.