Certo che se si pensa ai tormenti vissuti nella prima era del dopo Palamara, la lite all’interno della magistratura progressista è in fondo una declinazione attenuata, persino rassicurante. Dal rischio di un armageddon moralistico siamo ora alle scissioni politiche. Tutt’altra roba. L’ultimo tornante della frattura in Md, apertasi con la fuoriuscita di Eugenio Albamonte, Luca Poniz e altri big, è l’addio silenzioso di Francesco “Ciccio” Zaccaro, togato al Csm. Segue il pioniere della rottura con Magistratura democratica, ossia Giuseppe Cascini, che a Palazzo dei Marescialli è il capogruppo della “macrofamiglia” progressista, cioè Area, e che ad agosto era stato il primo a riconsegnare la tessera della corrente originaria, Md appunto, che di Area fa parte. È l’ultimo episodio, l’uscita di Zaccaro, ma viene accompagnato dal severo commento della segretaria di Magistratura democratica  Mariarosaria Guglielmi. Una risposta affidata a una lunga nota che parte da un’amara riflessione: la scelta del consigliere Csm «è il disconoscimento del gruppo come comunità politica, la rottura di ogni dialogo con le persone con le quali si è condiviso un percorso e alle quali nessuna spiegazione è dovuta».

Gugliemi: così si disintegra la magistratura progressista

Guglielmi assicura che, insieme con il presidente Riccardo De Vito, manterrà fino alla fine del mandato l’impegno di «operare perché Md, con la sua specificità e  il suo spirito critico, continui a esprimere capacità di dialogo in magistratura e nella società, e a essere una forza di aggregazione e di unità per tutti i magistrati progressisti». Ma soprattutto sostiene che chi, come il segretario di Area Albamonte, l’ex presidente Anm Poniz e ora Zaccaro è andato via da Magistratura democratica  rischia di provocare conseguenze «distruttive» per l’intero «fronte della magistratura progressista». Sono preoccupazioni espresse con un tono grave, ma dall’altra parte della barricata si mira proprio a Guglielmi e De Vito come responsabili di un isterilimento di Md, di averla isolata e soprattutto di aver negato ogni effettivo dibattito interno”. Su tale ultima contestazione Guglielmi replica con argomentazioni forti, di cui si dirà a breve. Ma intanto un fatto sembra chiaro: la fase due del dopo Palamara rischia, per una parte della magistratura, di diventare  effettivamente autolesionistica. Quanto avvenuto con il cosiddetto mercato delle nomine e con l’epitome di quel fenomeno  ossia il tentativo compiuto da Palamara e altri di impedire che il passaggio di testimone alla Procura di Roma avvenisse nel segno della continuità con Pignatone   sembra dovere per forza costare una implicita e indiretta autopunizione, peraltro proprio in quel settore della magistratura associata meno coinvolto dalle vicende di maggio 2019.

Il rischio di compromettere un riesame non moralistico del caso Palamara

Al di là di quanto un simile esito sia inesorabile, c’è un ulteriore dato che ne deriva, e a cui forse è più difficile rimediare: si rischia cioè di rinviare ancora una volta unanalisi seria all’interno dell’Anm, sul vero significato dal caso Palamara. In parte tale elusione si è realizzata proprio attraverso l’asprezza della sanzione inflitta all’ex presidente Anm e con lo stesso iter procedimentale, in cui si è negato l’ascolto dei testi indicati dall’incolpato. In quella sede l’opportunità dell’analisi è svanita. Adesso la ricostruzione storica e il giudizio distaccato rischiano di essere soppiantati dall’infinita sequenza delle lacerazioni Proprio in quella componente del mondo togato, la sinistra di Area e di Md appunto, che è non solo più estranea al cosiddetto scandalo, ma anche più ricca dal punto di vista dell’abitudine all’approfondimento, al confronto intellettuale. Si rischia così di perdere l’occasione di un riesame della crisi deflagrata nel 2019 il meno possibile moralistico  e il più possibile costruttivo e propositivo. Sarebbe invece stato utile compierlo, a costo di opporne gli esiti, anche con un’opportuna dose di sfrontatezza, a quella politica che spesso in questi mesi ha maramaldeggiato sui magistrati. Altro motivo di rammarico, per la perdita di una simile occasione, è nel valore aggiunto che potrebbe assicurare il nuovo presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia, a cui vanno riconosciute autorevolerzza ma anche franchezza nei toni, capacità di esprimere giudizi senza piegarli all’attesa del politicamente corretto.

La segretaria di Md contro l’«abbandono unilaterale»

Intanto è chiaro che all’assemblea di Area, prevista a gennaio, si andrà a un redde rationem tesissimo. Lo lasciano intuire la vicenda Zaccaro e la risposta di Guglielmi. La quale lamenta come detto soprattutto un vizio, nell’addio a Md dei 25 firmatari della lettera e poi dal togato Csm: non aver sentito «il  bisogno di portare le proprie ragioni nei luoghi di dibattito  collettivo del gruppo». Secondo la segretaria di Magistratura democratica «per alcuni, in realtà, si tratta a ben vedere di un “ultimo atto”  del tutto coerente con un’assenza che si protrae da tempo proprio da quei luoghi di confronto politico di Md di cui si lamenta la mancanza. Luoghi che non sono le chat ma i consigli nazionali, sono le sezioni ancora attive e tutte le occasioni nelle quali l’impegno dei singoli  riesce a segnare una presenza del gruppo, aperta e inclusiva». Gli ormai ex compagni del gruppo, che resteranno in Area ma senza più il distintivo della «nobile storia» di Md, compiono, per Guglielmi, un «abbandono “unilaterale” in linea con  la scelta di tenere posizioni di “dissenso non espresso” (e certo non soffocato), come accaduto anche all’ultimo congresso di Roma: nessuna  presentazione di candidature “alternative” alla  linea della dirigenza per l’elezione dei componenti del Consiglio Nazionale; numerose  e compatte astensioni sul voto per il rinnovo di segretario e presidente in carica  e per l’approvazione della mozione finale, rimasta infatti unitaria perché nessuna proposta alternativa è stata mai presentata». Ma così, sostiene la segretaria di Md, «non si propone un’alternativa, non si  indicano strade diverse nella direzione che si ritiene giusta, ma si decide l’abbandono. Si va via bruciando i ponti, senza  possibilità di ripensamenti e chiudendo definitivamente le vie del dialogo. Non si prova a cambiare la “nobile storia” di Md ma si tenta di “rottamare “ il gruppo che ne è l’erede. Non ci si limita ad interrompere un percorso individuale ma si mette in mora chi resta». Può darsi sia un semplice e fisiologico esempio di dialettica politica interna. Certo sarebbe grave se l’esito delle differenze all’interno della sinistra giudiziaria prefigurasse l’implosione di uno tra gli ultimi luoghi di impegno pubblico e civile sopravvissuti alla crisi politica più ampia che, a cominciare dai partiti politici, travolge ormai il Paese e le sue classi dirigenti.