Il giudice Alberto Di Pisa è morto dopo una lunga malattia. Uomo perbene, schietto e integerrimo, inevitabilmente lo si ricorda come l’uomo accusato (e poi prosciolto definitivamente) di essere stato l’autore del Corvo 1. Ma fu opera di delegittimazione, utile per togliergli di mano le indagini che stava svolgendo. Utile per farlo sospendere dal servizio, soprattutto durante quell’oscuro e tormentato biennio 91- 92 che culminò con le stragi di Capaci e Via D’Amelio.

Come ha ricordato Roberto Saviano a Sanremo, riferendosi ai giudici Falcone e Borsellino, quando erano in vita furono vittima di delegittimazione per creare diffidenza in chi era dalla loro parte, ma ha aggiunto che, tuttavia «la mafia non è riuscita a sporcare l'esempio delle loro scelte coraggiose». Ma c’è molto di più. Rileggendo le motivazioni di Capaci bis a firma del giudice Antonio Balsamo, si parla di una vera e propria «una sinergia che si avvaleva della cooperazione (almeno) colposa di alcuni settori della Magistratura e che agevolava il processo di isolamento intrapreso nei confronti di Falcone». Come mai questa campagna di delegittimazione? La sentenza spiega che c’era la consapevolezza che l’attività fosse un pericolo non solo per Cosa Nostra, ma anche con chi stabiliva rapporti con loro, utili per un tornaconto economico a partire da settore degli appalti.

Ed è stato proprio quest’ultimo settore che riguardava indagini, poi interrotte, svolte da Di Pisa. Il giudice venne accusato di essere l’autore delle lettere velenose del Corvo, proprio mentre stava svolgendo le indagini sugli appalti di Pizzo Sella, sperone di granito che è diventata "la collina del disonore". Aveva intuito il coinvolgimento del gruppo nazionale Ferruzzi – Gardini. Anni dopo, esattamente nel 1997, ma gli elementi già c’erano tutti dapprima, si scoprì che la mente dell’operazione fu il boss Antonino Buscemi, uno che dava del tu a Totò Riina e considerato uno dei suoi consiglieri. Nel 91, la questione è stata già chiara con il deposito del dossier mafia appalti redatto dai Ros Giuseppe De Donno e Mario Mori sotto la supervisione di Falcone. Metteranno nero su bianco dei legami insospettabili, un reticolato di imprese siciliane che portano ai big dell'imprenditoria italiana.

Di Pisa ha svolto altre importanti inchieste come l’omicidio del sindaco di Palermo Giuseppe Insalaco (non a caso voleva rivedere il sistema dell’aggiudicazione degli appalti), iniziò il processo Ciancimino che gli fu affidato come singolo e non come componente del pool. Com’è detto, gliele tolsero tutte di mano per via dell’accusa – poi conclusasi con una piena assoluzione – di essere stato l’autore della lettera del “Corvo”. L’accusa nasce dalla costruzione di una pseudo prova. L’allora alto commissario Domenico Sica gli prese le impronte sul tavolo di vetro sul quale tamburellava con le dita. In realtà, come ben spiegato nelle motivazioni della sentenza di assoluzione, non c’è mai stata una sua impronta sulla lettera anonima, ma solo la foto di un’impronta costruita a tavolino. Nella lettera c’è solo una macchia, probabilmente un pasticcio da chi ha cercato invano di trasferirle la sua impronta. Tra l’altro il giudice Di Pisa denunciò Sica per abuso di potere, perché - a detta sua - quell’indagine doveva essere eseguita dalla Polizia giudiziaria e non da un organo amministrativo.

Ultimamente è stato sentito dalla commissione antimafia siciliana e ha spiegato il perché, secondo lui (ma lo dicono numerose sentenze), sia Falcone che Borsellino furono uccisi per la questione relativa al dossier mafia appalti. Ha rivelato anche un altro dettaglio non da poco. «In occasione della camera ardente allestita al Palazzo di Giustizia – ha raccontato Di Pisa in commissione - ebbi con Borsellino un breve colloquio dinanzi alle bare di Falcone, della moglie e degli agenti della scorta. Mi disse: “Io intendo riaprire le indagini su mafia e appalti”, quasi a volere stabilire un collegamento tra la strage e l’indagine sugli appalti».

Ultimamente, durante il processo Agostino, è andato in scena l’ultimo atto di fango. Il pentito Brusca - sollecitato dall’avvocato di parte civile ricordandogli il nome di Di Pisa – ha detto, che sì, ora ricorda che Riina avrebbe detto «Se dovesse parlare Di Pisa». Purtroppo, ora che è morto, sarà più facile portare a termine la delegittimazione mafiosa. Se fosse rimasto nella Procura di Palermo durante quel terribile e oscuro biennio, forse oggi avremmo avuto una storia diversa. Magari con qualche testimonianza scomoda in più. Quella maledetta domenica mattina del 19 luglio 1992, come ha ricordato Di Pisa durante l’intervista a Il Dubbio, Paolo Borsellino lo stava cercando con urgenza. Non si sono incrociati.