Non è sufficiente basarsi sull'assenza nell'istituto di casi di contagiati e sulla previsione dell'allocazione in luoghi separati dei detenuti positivi al Covid 19, ma bisogna soffermarsi sull'incompatibilità tra il regime detentivo carcerario e le condizioni di salute del detenuto. Si tratta di un passaggio, decisivo, della sentenza della Corte di Cassazione numero 19653 del 2021 appena depositata. Decisivo, perché parliamo di un detenuto in attesa di giudizio in chemioterapia, quindi gravemente malato, e che risulta, di fatto, incompatibile con la detenzione penitenziaria. Tante, troppe volte, è accaduto che i giudici competenti hanno rigettato l’istanza per i domiciliari, trincerandosi dietro il poco rischio contagio da Covid e la possibilità di essere assistito al livello sanitario. E tante troppe volte, è accaduto che i detenuti sono morti. L'istanza era stata rigettata dal Tribunale Il Tribunale che aveva rigettato l’istanza dei domiciliari, ha ritenuto che l'indagato non rientra in una delle categorie di soggetti la cui condizione di salute pregressa rende certa o altamente probabile l'evento morte in caso di contagio da Covid 19. «Siffatta valutazione si appalesa però errata – scrive la Cassazione -, essendosi trascurata la documentazione medica agli atti da cui risulta che l'indagato è affetto da una grave patologia oncologica ed è attualmente sottoposto a trattamento chemioterapico». E aggiunge che «trattasi di patologia che rientra tra quelle segnalate dal Dap come statisticamente collegate a un elevato rischio di complicanze in caso di contagio da Covid-19». Per questo motivo, secondo la Corte Suprema, «ne discende che la valutazione sulla ricorrenza di un rischio concreto per il detenuto di contrarre il coronavirus, nel carcere in cui è ristretto, deve essere effettuata alla luce delle sue reali condizioni di salute». La Cassazione fa riferimento agli articoli 27 e 32 della Costituzione La Cassazione, ha inoltre sottolineato che, in nome degli articoli 27 e 32 della Costituzione, bisogna tenere conto della valutazione sull'incompatibilità del regime carcerario con lo stato di salute del recluso, ovvero «sulla possibilità che il mantenimento della detenzione di una persona ammalata costituisca un trattamento inumano o degradante». E tale valutazione di compatibilità o meno con il carcere, deve essere effettuata comparativamente, tenendo conto delle condizioni di detenzione del condannato, «verifica clinica, questa – aggiunge la Corte - che comporta un giudizio non soltanto di astratta idoneità dei presidi posti a disposizione del detenuto all'interno del circuito penitenziario, ma anche di adeguatezza del trattamento terapeutico, che, nella situazione concreta, è possibile assicurare al carcerato, tenuto conto delle patologie che lo affliggono, nel valutare le quali non si può non tenere conto della possibile influenza su di esse dell'emergenza sanitaria di Covid-19».Il tribunale che aveva rigettato l’istanza ha giustificato tale decisione osservando che in carcere c’era assenza rischi contagi e che, in ogni caso, era previsto l’allocazione in luoghi separati dai detenuti positivi al Covid 19. La Cassazione è stata categorica sul punto: Il tribunale deve tener conto «sia dell'astratta idoneità dei presidi sanitari fruibili dal detenuto all'interno del circuito penitenziario sia dell'adeguatezza concreta del percorso terapeutico, apprestato per assisterlo nelle sue esigenze». La Cassazione ha quindi chiesto di tenere conto i principi e le considerazioni fatte. Ciò ha imposto l'annullamento dell'ordinanza, con il conseguente rinvio al Tribunale del riesame di Caltanissetta per un nuovo esame, che dovrà essere eseguito nel rispetto dei principi che la Corte ha enunciato.