C’è innanzitutto un’alea di incertezza che permane sulla più alta delle magistrature. Pietro Curzio e Margherita Cassano sono sì stati riconfermati dal Csm, lo scorso 19 gennaio, al vertice della Cassazione, ma il contenzioso sulle loro nomine non pare esaurito: il “contendente” Angelo Spirito, che alla Suprema corte presiede la Terza civile, è in procinto di depositare un ulteriore ricorso, stavolta per ottenere la “ottemperanza” della sentenza precedente. Un extended time non imprevisto, ma che certamente complica il quadro faticosamente ricomposto dalle “rinomine lampo” del Csm. Ma a parte la singola incognita che tuttora grava su Curzio e Cassano, permane anche una più generale precarietà del cosiddetto autogoverno dei magistrati, se non dell’intero ordine giudiziario: fin dove può spingersi la censura amministrativa? Davvero la rivendicazione di autonomia espressa da Palazzo dei Marescialli con la riconferma di Curzio e Cassano si regge su basi robuste? E se non fosse così, riuscirà, la riforma del Csm, a stabilire regole meno esposte ai ricorsi? E infine, qual è il grado di credibilità di una magistratura che, ora come ora, continua a essere divisa sul controllo di legalità interno? Domanda, l’ultima, che in un’intervista pubblicata sul Riformista di ieri, un togato del Csm come Sebastiano Ardita ha impietosamente rilanciato. Ecco, ma prima di tornare alle scelte del giudice Spirito, si può aggiungere un’ulteriore e non trascurabile chicca: il prossimo 21 febbraio, in Consiglio di Stato si discuterà un altro ricorso relativo sempre alle vecchie nomine del presidente e dell’aggiunto della Cassazione, attivato stavolta da Camilla Di Iasi, attuale presidente della tributaria civile della Suprema corte, la sezione più grande di piazza Cavour, che gestisce, con un organico di oltre 70 magistrati, il contenzioso più ampio e finanziariamente rilevante dell’intera giustizia italiana. Di Iasi chiede, anzi aveva chiesto, che, per le funzioni di primo presidente aggiunto, fosse riconosciuta la prevalenza dei suoi titoli rispetto a quelli di Cassano. In teoria, dopo la sentenza depositata lo scorso 14 gennaio che ha accolto il ricorso di Spirito avverso le nomine di Curzio e Cassano, è venuto meno il motivo del contendere: la nomina impugnata da Di Iasi è già stata caducata dal Consiglio di Stato. Ma soprattutto, è stata superata dalla rinomina votata la settimana dopo dal Csm. Eppure, indiscrezioni riferiscono della possibile introduzione di motivi aggiunti da parte della magistrata ricorrente, che consentirebbero al Consiglio di Stato di esprimersi comunque. Sarebbe un colpo di scena, sul quale però non è facile azzardare previsioni.È un fatto, invece, che Spirito, valuta in queste ore la possibilità di attivare il giudizio di “ottemperanza” contro il Csm: vuol dire rivolgersi ancora al Consiglio di Stato affinché, stavolta, dichiari che la rinomina di Curzio e Cassano configura in realtà una elusione del precedente giudicato amministrativo, ed è dunque da considerarsi nulla. Soprattutto, con la propria azione, Spirito imporrebbe la designazione di un commissario ad acta che proceda a invalidare la delibera del 19 gennaio e a imporre a Palazzo dei Marescialli una nuova valutazione fra Curzio, Cassano e Spirito coerente con la sentenza “pro Spirito” depositata da Palazzo Spada lo scorso 14 gennaio. Non è sicuro che il Spirito assuma davvero un’iniziativa così dirompente. Il suo difensore, il professor Franco Gaetano Scoca, spiega di considerare «assolutamente percorribile tale opzione: d’altra parte, il presidente Spirito», aggiunge, «sa di poterla perseguire solo se sorretto da una forte motivazione». Spirito mantiene il riserbo. Colleghi che hanno avuto modo di parlargli ipotizzano una “terza via”: un giudizio di ottemperanza attivato solo sulla nomina dell’aggiunto Cassano, per evitare una tensione istituzionale troppo alta, considerato che sul voto bis del Csm ha impresso il proprio sigillo Sergio Mattarella, appena rieletto Capo dello Stato e dunque presidente del Csm. Scelte delicate. Ma, come minimo, l’alea di cui sopra è ben percepibile. Poi c’è un ultimo dettaglio. Il documento approvato venerdì scorso dal Consiglio di presidenza della Giustizia amministrativa, il Csm dei giudici di Tar e Palazzo Spada, su sollecitazione della Associazione tra i magistrati del Consiglio di Stato: si tratta della “pratica a tutela” aperta dopo che il relatore della sentenza su Curzio e Cassano, Alberto Urso, era stato impallinato dai giornali in quanto il ricorrente da lui “premiato”, Spirito appunto, aveva fatto parte della commissione del concorso con il quale lui, Urso, era diventato consigliere di Stato. Ebbene, alla fine del documento approvato dal plenum del “Cpga” si “ribadisce il compito istituzionale della giustizia amministrativa, che non può avere altro riferimento che il dettato costituzionale e legislativo, senza distinzioni, per natura e categoria degli atti posti alla sua attenzione”. Come dire: rivendichiamo il diritto a censurare le tue nomine, caro Csm, non sei sottratto al controllo di legalità. Ora, quello di Palazzo Spada potrà sembrare un proclama da sconfitti. Ma dire che la lite fra magistrati si sia conclusa per sempre con la vittoria del Csm sarebbe da illusi.