La Cassazione per la prima volta ha sollevato una questione di incostituzionalità sul 4 bis comma 1, l’articolo dell’ordinamento penitenziario che vieta la concessione dei benefici ai condannati per taluni reati, se non in presenza della collaborazione ai sensi dell’art. 58 ter , quando non sia impossibile o inesigibile. In questo caso specifico parliamo del divieto del permesso premio nei confronti di un ergastolano ostativo condannato per il 416 bis, l’associazione di tipo mafioso. La questione è unica, perché in sostanza il permesso (come recita il comma 1 del 4 bis) può essere concesso solo con la collaborazione. Ora, invece, la Cassazione , rimandando alla Corte Costituzionale la questione, dichiara “rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale”, nonostante il detenuto non possa usufruire della collaborazione impossibile o inesigibile.

Come detto, è una questione sollevata senza precedenti. Anche se, soprattutto analizzando le sentenze recenti che il Dubbio ha riportato, l’orientamento giurisprudenziale pareva volgere lo sguardo sulla modifica sostanziale del 4 bis, articolo più volte considerato da diversi giuristi come dettato dalle emergenze e che quindi non dovrebbe essere più ordinario. Ma parliamo di questo caso specifico. La Corte di Cassazione ha accolto il ricorso del detenuto, presentato dall’avvocato del foro di Roma Valerio Vianello Accorretti, che ha ben sottolineato l’incostituzionalità del 4 bis laddove, nel combinato disposto con gli articoli 17, 18 e 22 del codice penale, crea una lesione ai principi rieducativi costituzionalmente protetti: una presunzione di inaccessibilità ai benefici penitenziari, ne impedisce ( secondo la difesa) una concreta rieducazione e riabilitazione. Sempre nel ricorso, viene spiegato che tale impedimento al beneficio penitenziario e alle misure alternative ( articolo 4 bis comma 1) , rende palesemente vano qualsiasi percorso rieducativo del detenuto: quindi non solo viola l’articolo 27 della Costituzione, ma anche le recenti sentenze della Corte Europea dei diritti umani, secondo cui – nei casi di condanna all’ergastolo – l’assenza di strumenti giuridici certi - che possano portare, dopo almeno 25 anni e valorizzando il percorso rieducativo del detenuto, a un riesame della condanna e dunque alla libertà del detenuto - concretizza una violazione dell’articolo 3 della Cedu. Interessante, leggendo sempre il ricorso, come viene sottolineato che la volontà di non collaborare con la giustizia non coincida sempre con la volontà di rimanere collegati con la criminalità organizzata di appartenenza, ma con la volontà di difendere la propria incolumità e dei propri familiari o con l’evidente difficoltà morale di dover accusare un proprio congiunto. La Cassazione – visto l’articolo 3 e 27 della costituzione - ha quindi dichiarato fondato il ricorso, trasmettendo gli atti alla Corte Costituzionale. ' E' molto importante - commenta l’avvocato Valerio Vianello Accorretti - che la Corte di Cassazione abbia fatto questo passo: è una problematica di cui si discute da molto tempo, che aveva trovato spazio anche nei tavoli di riforma dell'ordinamento penitenziario. In questi anni alcune decisioni della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo - dinanzi alla quale attualmente pende questione analoga - nonché la più recente sentenza n. 149 del 2018 della Corte Costituzionale, hanno creato un autorevole supporto giuridico per riflettere sulla legittimità di una pena che appare lontana dai principi di rieducazione e riabilitazione del condannato.'

Né possiamo dimenticare che proprio in questi mesi il Partito Radicale sta conducendo una raccolta di firme per otto proposte di legge popolare tra cui, una di queste, prevede la modifica dell’art. 4 bis : la proposta è quella, tra gli altri interventi sull’articolo, di abolire la collaborazione, come indice unico di ravvedimento e rieducazione, per contrasto con la finalità rieducativa della pena, di rango costituzionale.