Dopo anni di discussione e dopo i richiami e le multe della Cedu - l’ultima nel 2019 per gli arresti domiciliari inflitti al direttore del Giornale, Alessandro Sallusti - sarà la Corte Costituzionale a dire se il carcere per i giornalisti è una misura legittima. Una possibile svolta, grazie all’eccezione di costituzionalità sollevata dall’avvocato Giancarlo Visone, del sindacato unitario dei giornalisti della Campania, difensore in un processo per diffamazione davanti al tribunale di Salerno di un ex collaboratore e del direttore del quotidiano “Roma”, per una vicenda risalente al 2012.

Il giudice, ritenendo rilevante ai fini della decisione l’eccezione sollevata dal legale, ha disposto l’immediata trasmissione degli atti alla Consulta, sospendendo il procedimento e i termini di prescrizione fino al pronunciamento dei giudici. Alla base della decisione diversi casi sui quali si è pronunciata la giurisprudenza nazionale e, soprattutto, europea. Secondo la tesi dell’avvocato Visone, «anche la sola previsione astratta della possibile irrogazione di una pena detentiva in caso di diffamazione a mezzo stampa comporterebbe una limitazione eccessiva del diritto convenzionalmente e costituzionalmente tutelato della libertà di manifestazione del pensiero e di cronaca del giornalista, incompatibile con l’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo».

Il carcere per i giornalisti condannati per diffamazione a mezzo stampa, previsto dall’articolo 13 della legge sulla stampa e dall’articolo 595, comma tre, del codice penale, violerebbe violerebbe infatti gli articoli 3, 21, 25 e 27, nonché l’articolo 117 comma 1 della Costituzione, in relazione all’articolo 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Secondo la Convenzione, la libertà d’espressione e d’opinione, nonché quella di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche, è un diritto. Nel caso Sallusti, arrestato a novembre del 2012 a seguito alla condanna definitiva per la denuncia per diffamazione e omesso controllo presentata contro di lui dal giudice Giuseppe Cocilovo, la Cedu aveva evidenziato come il carcere, nonostante si trattasse di un caso comprovato di diffamazione e violazione dei valori etici e della privacy, fosse una pena eccessiva e sproporzionata, in quanto la pena detentiva può essere inflitta, con le dovute cautele, solo in caso di pezzi che incitano all’odio, anche razziale ed alla violenza. In tutti gli altri casi, dunque, risulta lesiva del ruolo fondamentale che i giornalisti svolgono in una democrazia e della loro libertà di opinione/ stampa. Un caso sulla cui base, ora, la Consulta potrebbe finalmente decidere di dichiarare l’incostituzionalità della detenzione nei casi di diffamazione.

«La Cedu non dice che il carcere è illegittimo in astratto, bensì che si tratta di una misura puramente eccezionale - spiega Visone al Dubbio - Quindi l’ordinamento interno può prevederla, ma in casi puramente eccezionali. Quello che abbiamo ritenuto, e che il tribunale di Salerno ha condiviso, era che l’attuale normativa italiana, specie per quanto riguarda l’articolo 13 della legge sulla stampa, relativo alle pene per il reato di diffamazione, non prevede proprio questa alternativa, nel senso che se c’è l’aggravante della diffamazione per mezzo stampa con l’attribuzione di un fatto specifico, l’unica pena che il giudice applica è quella detentiva, a prescindere dal fatto che si tratti di casi eccezionali. Sotto questo profilo, si è ritenuto che potesse paventarsi un problema di legittimità con l’articolo 10 della Cedu e con l’articolo 21 della Costituzione. L’ordinanza del tribunale di Salerno, condividendo la tesi e allargandola anche al comma 3 dell’articolo 595 del codice penale - in relazione all’attribuzione del fatto determinato ha portato la questione all’attenzione della Consulta, per verificare se effettivamente la normativa italiana è compatibile o meno». È la prima volta che la questione viene posta sotto questo profilo. «Nei casi Belpietro e Sallusti - aggiunge Visone - la Cedu è intervenuta su sentenze di Cassazione per le quali i giudici avevano ritenuto compatibile con la Costituzione il carcere per i giornalisti. Quindi si riteneva che la normativa italiana fosse compatibile. In realtà, però, la Cedu ha sostenuto il contrario. Ed ecco che si pone un problema di interpretazione della normativa interna, perché effettivamente non c’è sufficiente chiarezza».

L’ordinanza di Salerno, facendo riferimento proprio ai casi Belpietro e Sallusti, ha evidenziato come «la richiamata giurisprudenza di legittimità non possa essere presa in considerazione come parametro di interpretazione convenzionalmente e costituzionalmente orientata in quanto la stessa si è poi rivelata, a posteriori, contraria all’orientamento consolidato della giurisprudenza della Corte Edu in materia, che nelle due occasioni di condanna a pena detentiva per diffamazione a mezzo stampa non ha in effetti riconosciuto la sussistenza di nessuna “ipotesi eccezionale”». Secondo il giudice, inoltre, «è già la stessa previsione astratta di una pena detentiva - quindi la comminazione legislativa della stessa ad essere eccessivamente limitativa del fondamentale diritto di manifestazione del pensiero», ma anche «irragionevole e totalmente sproporzionata», nonché «non necessaria rispetto al bene giuridico tutelato».

Soddisfatta la Federazione nazionale della Stampa italiana. «Sono anni che chiediamo che con una legge il Parlamento - affermano il segretario e il presidente della Fnsi, Raffaele Lorusso e Giuseppe Giulietti, e il segretario del Sugc, Claudio Silvestri - cancelli il carcere per i giornalisti. Una vera vergogna che nessun governo ha voluto affrontare seriamente e che spinge l’Italia in fondo alle classifiche sulla libertà di stampa. È sempre più urgente un intervento del legislatore su una materia fondamentale perché riguarda il diritto dei giornalisti di informare e il diritto dei cittadini ad essere informati. La recente condanna dell’Italia da parte della Cedu proprio per la presenza della pena detentiva per il reato di diffamazione non dà più alcun alibi al Parlamento».