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Una specie di confino su un’isola straniera, dove chi vi soggiorna è condannato a un doppio isolamento. Ecco cos’è il carcere delle donne. Un carcere ancora più invisibile dell’altro, quello degli uomini. Perché le donne in carcere sono poche, e allora sono poche le norme, i fondi e le risorse di cui possono usufruire. Come spiega l’avvocata Elisabetta Brusa, già presidente dell’Ordine degli avvocati di Varese.
“Articolo 27” è un podcast del Dubbio in tre episodi scritto da Francesca Spasiano, Rocco Vazzana e Daniele Zaccaria. A cura di Nicola Campagnani, montaggio e musiche di Riccardo Anzalone.
«Quando vado a fare i colloqui non posso portare dentro niente. I vestiti sì, perché se non hanno nessuno gli fai un borsone e lo lasci lì in matricola. Ma non è che io possa entrare con gli assorbenti. Quindi diventa veramente un problema di reperimento delle cose minimali. Prendiamo i francobolli: generalmente la Caritas ne porta un po’ ogni settimana per permettere anche a chi non ha soldi di spedire la lettera a casa. E il francobollo per scrivere è paragonabile a una questione che ti serve, sennò come fanno queste donne?», si chiede l’avvocata Brusa.
La risposta dovrebbe arrivare dalle istituzioni. Ma il primo nodo riguarda proprio la mancanza di regolamentazione della detenzione femminile. «L’ultima norma, quella che la disciplina nel migliore dei modi, è la legge Gonnella e risale al 2015. Dopo c’è stato un regolamento di esecuzione che però si limita a dare delle indicazioni su temi molto pratici come l’igiene personale e il vestiario, che poi vengono ripresi all’interno di ciascun carcere con regolamenti propri». Alcuni di questi prevedono che si possa tenere con sé la fede o una catenina, piccoli simboli della propria affettività. Nel carcere di Vercelli, ad esempio, è possibile conservare in cella creme depilatorie, smalti, deodoranti e addirittura un kit per l’igiene personale. Compresi gli assorbenti, che non rientrano nel vitto: bisogna comprarli allo spaccio. Ma con quali soldi? «Sembreranno cose “strane”, ma riguardano la dignità della persona. Stiamo parlando di donne che hanno necessità di ricevere attenzione rispetto alla propria salute ginecologica, con la possibilità di effettuare come tutte le donne normali degli esami di screening, e alla propria cura psicologica nel periodo detentivo».
Ma le donne restano un numero ininfluente in ogni statistica, una minoranza penitenziaria di cui nessuno si cura, come confermano i dati dell’ultimo report di Antigone. «Da questo rapporto abbiamo dei dati certi - spiega Brusa - e il dato certo è che al 31 gennaio del 2023 vi erano detenute nelle carceri italiane 2392 donne, delle quali 15 madri con 17 figli. Purtroppo in Italia ci sono solo 5 carceri femminili su 190 strutture penitenziarie: Trani, Pozzuoli, Roma, la Giudecca di Venezia e Empoli. In queste carceri vengono ospitate ad oggi 599 donne, quindi un quarto del totale della popolazione di detenuti. Oltre a queste cinque carceri prettamente femminili, ci sono poi 52 sezioni femminili, di cui aperte solo 44, dove attualmente sono ospitate 1779 donne. Vi sono poi sei sezioni all’interno degli istituti maschili che sono state adibite per le detenute trans, che per lo Stato italiano sono a tutti gli effetti detenuti di sesso maschile, ma chiaramente hanno bisogno di attenzioni diverse proprio per il loro orientamento sessuale».
Oltre alle carceri femminili e alle sezioni femminili, ci sono gli Icam, ovvero gli istituti a custodia attenuata, dove possono soggiornare le donne incinte o le madri con figli sotto i sei anni. Un tema perennemente al centro del dibattito politico, quelle delle madri detenute, al grido dello slogan “mai più bimbi dietro le sbarre”. «Quando si pensa alle donne detenute in carcere vorrei che non si pensasse più solo alle madri in cella, ma anche a quelle quasi 3mila detenute che devono poter lavorare in carcere».
Imparare un mestiere in carcere dovrebbe essere il primo passo verso il reinserimento sociale, come predica la Costituzione. Ma resta un miraggio. L’avvocata Brusa pensa a laboratori di cucina, cosmesi o sartoria, attività spendibili all’esterno una volta uscite. Come succede nella casa circondariale Giudecca di Venezia, dove le detenute lavorano all’orto nell’azienda agricola interna all’istituto. Ma lo abbiamo detto: le donne sono poche, e per questo viene sottratta loro anche la scuola. «Si vuole evitare chiaramente la promiscuità e quindi alle donne, soprattutto quando si tratta di sezioni femminili all’interno dei carceri, è negato l’accesso alle strutture comuni per esercitare l’attività sportiva, lavorativa o formativa. Penso alla decisione di esprimere il proprio culto: anche la messa deve essere divisa tra uomo e donna e questo ci fa riflettere sul fatto che dobbiamo andare verso una nuova dimensione».
Un’alternativa al carcere in un sistema carcerocentrico che non immagina misure alternative. «Che cosa ha come caratteristica la detenzione carceraria femminile? Di avere pene brevi. Non sono donne che generalmente vivono la detenzione carceraria in via definitiva per un lungo periodo di tempo. Ma il passaggio in carcere aumenta sicuramente per le donne la loro marginalità sociale. Ci si pensa da molto tempo, anche a livello legislativo, e si ritiene che si debba aumentare l’attenzione che le normative sulla giustizia riparativa sono state poste in essere proprio per diminuire il sovraffollamento carcerario e permettere soprattutto alle detenute donne di trovare una soluzione diversa per l’espiazione della propria pena».
Insomma, le carceri sono pensate ad uso esclusivo degli uomini. A cominciare dall’architettura. Ed per questo, come suggerisce Brusa, che bisognerebbe immaginare un’unità specifica all’interno del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, che sia orientata a una politica di genere. Così che le donne non sia condannate due volte, come vittime di abusi o come autrici di reato. «Come gli uomini esistono anche le donne maltrattanti. Ma se per i detenuti maschi è previsto un percorso trattamentale con l’ausilio di uno psicologo per prendere coscienza di ciò che si è fatto, per le donne non esiste niente del genere. Dunque vi è una disparità tra gli uomini e le donne come autori di reato, e ancora di più per le donne che scoprono in carcere di essere state abusate, violentate, di aver avuto maltrattamenti in famiglia. Anche in questo caso bisognerebbe creare dei percorsi di supporto per affrontare il trauma, tutto ciò che la Convenzione di Istanbul impone alle vittime di violenza anche all’interno del carcere».