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È una storia pesante. Fra tanti “processi mediatici”, la vicenda di Sergio Bramini è tra le più dolorose e controverse. L’imprenditore di Monza, sfrattato poco meno di un anno fa dalla casa ipotecata dalle banche, è stato protagonista di un fallimento intrecciato a crediti che diversi enti pubblici non gli avevano mai saldato. Caso ritenuto “esemplare” e seguìto con ridondanza da giornali e soprattutto tv, in particolare dalle “Iene”. È stato il programma di Italia uno a dare letteralmente la caccia, l’anno scorso, al giudice del Tribunale civile di Monza che aveva ordinato lo sfratto, Simone Romito. Ed è nei confronti di quest’ultimo, in particolare, che lo scorso 4 aprile il Csm ha approvato in plenum una “pratica a tutela”. Ha censurato sia la «falsa rappresentazione mediatica» sia la «assurda aggressione personale» compiuta, secondo Palazzo dei Marescialli, ai danni del magistrato. Con un passaggio, seppur più sfumato, sulle «plurime e indebite interferenze» che sarebbero arrivate da prefetto, sindaco di Monza e alcuni parlamentari.
L’iniziativa dell’organo di autogoverno ha un peso tutt’altro che marginale. Si tratta infatti della prima pratica a tutela deliberata in plenum da cinque anni a questa parte. Una decisione, se non proprio storica, degna di essere colta quanto meno come un segnale. Nel senso che si riconosce la maggiore pericolosità, per i magistrati, delle contestazioni rivolte in ambito civilistico, in particolare nelle procedure fallimentari, rispetto a minacce e insulti urlati alla lettura delle sentenze penali. I fatti legati alla messa all’asta della casa di Sergio Bramini e allo sfratto, contestatissimo da politica e media, ordinato dal giudice Romito, preoccupano il Csm più di quel «ti aspettiamo fuori» rivolto al giudice di Avellino Luigi Buono dopo la sentenza sulla strage del bus l’ 11 gennaio scorso.
Non c’è da sorprendersi. Il Csm è in allerta perché con fallimenti ed esecuzioni immobiliari si rischia la vita. E purtroppo in qualche caso la si perde. La strage del 2015 in Tribunale a Milano lo dimostra. Esattamente 4 anni fa, il 9 aprile, l’immobiliarista Claudio Giardiello uccise il giudice fallimentare Fernando Ciampi, l’avvocato Lorenzo Claris Appiani e Giorgio Erba, suo coimputato in un procedimento per bancarotta. Al Tribunale di Perugia, nel settembre 2015, un uomo armato di coltello tentò di colpire una giudice e venne fermato all’ultimo istante da un altro magistrato. Finora il Csm ha tenuto un profilo prudente sulle pratiche a tutela istruite dalla prima commissione. Pratiche che, per inciso, non hanno conseguenze penali neppure indirette né per l’anchorman che va sopra le righe né per i leader politici che parlano di «vergogna» a proposito di scarcerazioni o sentenze “troppo” lievi. Si tratta di deliberati che, anche se votati in plenum, hanno solo valore morale. Ma seppur nei limiti previsti dall’ordinamento, il Csm non intende più scherzare.
In realtà la maggioranza dei togati e gli stessi consiglieri laici sono determinati a non soprassedere più anche col resto. Ma è significativo il fatto che la prima “pratica a tutela” degli ultimi cinque anni riguardi un’ordinanza di sfratto. Segnala che la magistratura non intende tollerare situazioni particolarmente a rischio, ma anche che attende da media e politica maggiore continenza in casi forse meno pericolosi ma comunque allarmanti.
La pratica a tutela del giudice Romito era stata avviata già nel corso della precedente consiliatura dai togati Nicola Clivio e Claudio Galoppi. L’ha istruita la prima commissione, come da regolamento interno. In plenum ne è stato relatore il consigliere di Unicoist Luigi Spina, promotore anche di una delibera a tutela dell’intera magistratura che la prima commissione ha tuttora in esame. Gli inseguimenti compiuti l’anno scorso dalle “Iene” nei confronti del giudice civile di Monza, costretto persino a rifugiarsi in un portone, si sono sommate alla «reiterazione» e all’ «insistenza» delle «notizie infondate e parziali propinate all’opinione pubblica sulla vicenda». Secondo la delibera, la campagna in favore di Sergio Bramini si è tradotta in «comportamenti lesivi del prestigio della giurisdizione». E tali condotte hanno costituto «la premessa ed il substrato di ulteriori comportamenti, probabilmente ancor più gravi». La situazione insomma avrebbe potuto degenerare. Nel documento approvato in plenum si parla apertamente di «campagna di stampa ingiustificata ed alimentata ad arte, che ha considerato solo le rumorose proteste del debitore esecutato, omettendo del tutto di valutare i contrapposti interessi dei creditori».
Tra questi ultimi c’erano innanzitutto le banche. E le ragioni d Bramini non possono essere trascurate. Certo, aveva accumulato quasi 4 milioni di debiti a fronte di crediti non incassati da enti pubblici pari a meno della metà di quell’importo. Ma è anche vero che un imprenditore lasciato senza liquidità è costretto a farli, quei debiti. Il punto sul quale non si può dar torto al Csm è che un giudice non può essere additato come un infame solo perché applica la legge. Se non si scherza coi sacrifici fatti da un imprenditore nel corso di una vita, non si può scherzare neanche con la vita dei magistrati.