Finora abbiamo parlato delle varie leggi che prevedono il diritto della madre detenuta di ospitare con sé il figlio, possibilmente fuori dal perimetro penitenziario. Ma come mai in Italia viene contemplato questo diritto? L’obiettivo è che il bambino non sia privato dall’affetto e dalle cure materne, a beneficio della tutela della sua salute e della sua crescita emotiva e sociale. Proprio per questo motivo, oltre a non recidere subito il legame, le leggi che si sono susseguite e non applicate fino in fondo, prevedono anche che i figli non vivano all’interno delle mura carcerarie. Ancora una volta dobbiamo rispolverare l’ultima relazione del Garante nazione delle persone private delle libertà e andare direttamente al capitolo riguardante i bimbi detenuti. «La presenza di infanti – si legge nella relazione trasmessa in Parlamento - che trascorrono i primi mesi se non anni della propria vita, proprio i più decisivi per la formazione, in un contesto come quello del carcere rappresenta di per sé un grave vulnus. E se, alcuni Istituti si sono attrezzati con sezioni o stanze nido che ruotano realmente attorno alle esigenze primarie del bambino, va detto che il Garante nazionale ha trovato, in alcune sue visite, anche sezioni che del nido non hanno davvero nulla: un reparto detentivo classico, talvolta anche in cattive condizioni materiali con carenza perfino di un lettino adatto a un bimbo di questa età, dove i bambini vivono non solo con le loro madri ma anche in promiscuità con le altre donne detenute». L’autorità del Garante infine sottolinea: «Per questi bambini, che imparano a parlare all’interno del carcere, che acquisiscono familiarità con parole come blindo o passeggio, che vedono il cielo attraverso finestre con sbarre, che sono separati dai fratelli e dai padri e che al compimento del terzo anno di età come regalo ricevono la separazione tanto improvvisa quanto dolorosa dalla madre con cui hanno vissuto in simbiosi fino a quel momento, per questi bambini costruire un rapporto positivo con le Istituzioni sarà molto difficile. Queste osservazioni non devono però essere lette in favore di una interruzione del rapporto tra bambino e madre».

Quindi nessuna interruzione, ma favorire il rapporto tra i due. Perché? La teoria dell’attaccamento consiste in un’analisi di carattere scientifico sul legame che i bambini e i loro genitori stabiliscono fin dagli stadi più precoci dello sviluppo. Il primo autore che l’ha proposto come concetto cardine, per spiegare il comportamento dei bambini, fu John Bowlby, ricercatore britannico di scuola psicoanalitica che elaborò tale teoria. Secondo l’autore inglese, il bambino, appena nato, è naturalmente portato a sviluppare un forte legame di attaccamento con la madre o col caregiver, ossia con colui che si prende cura di lui. Nella specie egli approfondisce lo studio del comportamento infantile, in situazioni di distacco dalla madre. Il comportamento di attaccamento nei bambini – afferma Bowlby con il suo studio – si presenta generalmente forte e frequente fino ai tre anni di età. Superata questa fase, essi si mostrano più in grado di accettare un temporaneo allontanamento della propria madre ( ad esempio all’asilo, prendendo parte a giochi con gli altri bambini). Sempre secondo l’autore i bambini dopo il terzo anno di età si manifestano più sicuri in un ambiente sconosciuto e più propensi a instaurare forme di attaccamento sostitutive come con un parente o insegnante.

Il nostro Paese ha recepito questi studi e ha sempre cercato di salvaguardare questo rapporto, anche se riguardano le mamme detenute. Un diritto inviolabile quello riguardante il legittimo rapporto tra le detenute e i propri figli. Ma l’ambiente carcerario non lo aiuta e rischia di diventare un rapporto malato. Più volte è stato denunciata questa “malattia” che rischia di verificarsi dietro le sbarre. Diversi studi spiegano che all’interno del carcere, il legame che si viene a creare con la madre è un legame malato, caratterizzato da una totale dipendenza dalla madre, in cui il bambino è iperaccudito e dove l’influenza istituzionale gioca un ruolo chiave nel determinare una scarsa autonomia del ruolo genitoriale. L’istituzione infatti si sostituisce alla madre in tutte quelle attività esterne previste per il bambini, come le passeggiate, gli accompagnamenti al nido, dalle quali la madre resta inevitabilmente esclusa. La reclusione determina quindi delle strette limitazioni nel ruolo genitoriali, precludendo un sano legame tra la madre e il bambino oltre a ripercuotersi sul suo vissuto psicologico ed emotivo.

Quindi si ritorna nuovamente al problema iniziale: il carcere come luogo non adatto per favorire un sano sviluppo del bambini e un sano legame con la madre. Un legame che sarà bruscamente reciso se la madre dovrà ancora scontare altri anni di carcerazione. La pro- tezione dei minori, sotto l’aspetto del rapporto con i genitori, è stato formalizzato per la prima volta in Europa il 21 marzo del 2014 attraverso la Carta dei figli dei genitori detenuti che «riconosce formalmente il diritto di questi minorenni alla continuità del proprio legame affettivo con il genitore detenuto e, al contempo, ribadisce il diritto del medesimo alla genitorialità. La Carta è il risultato del protocollo d’intesa fra l’ex miniluppo. stro della Giustizia Andrea Orlando, l’Autorità Garante per l’Infanzia e l’Adolescenza e dal Presidente dell’associazione “Bambinisenzasbarre” volto a promuovere i diritti dei minori, istituendo un tavolo permanente composto dai rappresentanti dei tre soggetti firmatari, per monitorare periodicamente l’attuazione dei punti previsti dalla Carta. A luglio di quest’anno, la Carta è diventata anche una raccomandazione europea da parte del Consiglio d’Europa.

I BAMBINI NEGLI ALTRI PAESI

A febbraio del 2010 si è voluto realizzare un rilevamento, attraverso il Consiglio d’Europa, finalizzato ad avere più aggiornate e specifiche informazioni inerenti alla situazione presente in Europa riguardo alla possibilità, per la madre detenuta, di poter avere accanto il proprio figlio. Hanno risposto 19 nazioni e precisamente Austria, Belgio, Cipro, Danimarca, Francia, Germania Ovest, Grecia, Inghilterra, Galles, Irlanda del Nord, Islanda, Lussemburgo, Olanda, Norvegia, Portogallo, Scozia, Spagna, Svezia, Svizzera. È emerso che tutti questi Paesi hanno la possibilità di poter avere accanto a sé il bambino, tranne però la Norvegia, la quale non prevede nel suo ordinamento questa possibilità. Un’osservazione più attenta dei dati ha evidenziato un numero rilevante di eccezioni: in Lussemburgo si tende a non ammettere tutti bambini che possono essere separati dalla madre; in Olanda si tende ad inserire la madre detenuta con il bambino presso la comunità dove lavora; in Norvegia invece, il bambino viene affidato alla famiglia di origine o a delle comunità.

Ma l’età sino alla quale il bambino può stare con la madre in carcere? Nelle nazioni che hanno risposto al rilevamento si è potuto osservare che si oscilla da un’età massima di permanenza del bambino accanto alla madre detenuta di 6 anni, come in Italia e in Spagna ai 9 mesi previsti in Irlanda del Nord, in Olanda ed in Inghilterra. Anche dalla risposta a questa domanda si è potuto osservare come vi sia la tendenza, in diversi paesi europei, a ridurre la possibilità per il bambino di restare con la madre detenuta negli istituti penitenziari, offrendo diverse opportunità di inserimento del bambino stesso in comunità- famiglie, affidandolo a genitori affidatari, ricercando comunque delle soluzioni che gli evitino il dover subire l’impatto traumatico del carcere.

La conclusione è che l’Italia risulta decisamente più sensibile sulla difesa del rapporto tra figli e madri detenute, un po’ meno però nell’evitare, al bambino stesso, l’ambiente penitenziario.

FINE

(LE PRECEDENTI PUNTATE SONO STATE PUBBLICATE IL 25 SETTEMBRE, IL 26 SETTEMBRE E IL 2 OTTOBRE)