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Faith e Divine, di sei e diciotto mesi, entrarono in carcere con la madre il 26 agosto del 2018. Lei, cittadina tedesca, era stata arrestata e accusata di traffico internazionale di stupefacenti. Era un periodo in cui nella sezione nido del carcere romano di Rebibbia si contavano nove detenute e undici bambini. Uno di questi, di lì a poco, avrebbe compiuto tre anni e, come di consueto, venne organizzata una festa di compleanno.
Quel giorno la madre di Faith e Divine si affacciò nella sala comune, prese due pezzi di torta per il figlio più grande, si sedette con loro in un angolo e poco dopo tornò in cella. Quando in una situazione straordinaria come può essere quella di un compleanno dentro il nido di un carcere - con musica e candeline - si rimane in disparte, è probabile che qualcuno se ne accorga. Le altre detenute, del resto, avevano notato il fare schivo e assente della donna tedesca: c’era chi lo attribuiva al fatto che era una nuova giunta, chi sosteneva che non sapendo l’italiano era per lei difficile comprendere quanto le avveniva intorno e chi, invece, aveva sollecitato un intervento di uno specialista perché era evidente che non stesse bene.
Il 18 settembre, intorno all’ora di pranzo, mentre altre detenute salivano le scale insieme ai figli per rientrare dal cortile, la mamma di Faith e Divine si fermò improvvisamente e lasciò cadere i figli giù per le scale. La più piccola morì sul colpo, il più grande poco dopo in ospedale.
Il dramma che si consumò quel giorno a Rebibbia fece scalpore per un mese, il tempo di trovare dei responsabili, sospenderli dall’incarico e trasferire in una Rems (Struttura sanitaria di accoglienza per gli autori di reati affetti da disturbi mentali) la madre che, sentenziò poi il giudice, era totalmente incapace di intendere e di volere al momento del fatto.
Da allora sono passati esattamente cinque anni e la questione dei bimbi ristretti continua a essere una delle (rare) tematiche carcerarie che desta un qualche tipo di scalpore e a tratti anche di scandalo, sia nell’opinione pubblica sia, in modalità intermittenti, nella classe politica.
Eppure, strisciante e subdola, permane la tentazione di considerare quel numero, tanto è piccolo e mutevole nel tempo, un fallimento tutto sommato sopportabile. Lo era quando le madri detenute con figli erano più di cinquanta, lo è a maggior ragione ora, che si aggirano attorno alla cifra di venti. (L'ultimo dato aggiornato al 31 agosto dal ministero della Giustizia, parla di 18 madri e 19 minori al seguito).
Perfino la morte di due bambini, collocata all’interno della macabra cronistoria carceraria, sembra far parte di quegli incidenti che possono capitare in un sistema che non può – guai se lo facesse – incepparsi per una sola terribile vicenda. È comprensibile, si dirà, l’emotività smuove le coscienze per pochi secondi. Poi, a prevalere, specialmente nel caso di chi governa la cosa pubblica, deve essere non tanto il raziocinio, quanto la riduzione della complessità: a ogni reato corrisponde un criminale, a ogni criminale corrisponde una pena che, per riduzione di alternative, finisce per coincidere con il carcere. Luogo dove però non c’è molto spazio per essere madri e, se capita di esserlo, allora bisogna adattarsi.
Ed ecco quindi spuntare l’altra terribile tentazione, ossia quella di sostenere (anche pubblicamente) che quelle madri detenute – il più delle volte in attesa di giudizio definitivo – si meritino quella condizione di genitorialità mutilata. E coerentemente con ciò, ipotizzare l’esclusiva liberazione dei figli, aspettando che le madri scontino tutte le loro colpe in galera. E se c’è chi fa notare che quell’età, dai 0 ai 3 anni, è tra le più delicate dell’intera esistenza umana e che il contatto con la madre è essenziale, pazienza! Bisognava pensarci prima.
Ma è proprio quella parola – prima – a far scricchiolare l’intera prospettiva carcerocentrica su cui, decennio dopo decennio, lo Stato continua a fare affidamento. I reati per i quali quelle donne sono ristrette - e anche molti uomini e giovani adulti – raccontano di un prima (e di un dopo) fatto spesso di violenza, abbandono, malattia e dipendenza. E se la marginalità economica e sociale continua a essere percepita come un fatto privato, che riguarderebbe esclusivamente l’individuo e le sue presunte capacità di agire e se, quindi, il deserto lo si patisce in solitudine, è possibile che l’acqua la si finisca per cercare ovunque, anche a costo della propria libertà. E il carcere, lungo quel percorso a ostacoli, non sarà altro che una tappa come le altre.
Dopo cinque anni, un albero, piantato davanti a un chiosco di “grattachecche”, in via Giovanni Branca a Roma, porta i nomi di Faith e Divine. A memoria di ciò che sarebbe potuto essere e di quello che è ancora possibile fare.