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Non finirà con un’archiviazione l’indagine sulla morte di Antonio Saladino, il ventinovenne morto per arresto cardiocircolatorio il 18 marzo del 2018 durante il periodo di carcerazione preventiva nel penitenziario di Arghillà, a Reggio Calabria. Il Gip del tribunale dello Stretto ha infatti accolto l’opposizione presentata dall’avvocato Pierpaolo Albanese, rigettando l’istanza d’archiviazione proposta dal pubblico ministero. Serviranno nuove indagini per fare luce sulla morte di Saladino, nel tentativo di capire come sia stato possibile che nessuno – oltre ai detenuti che dividevano con lui la cella – nonostante le numerose visite mediche, si sia accorto di come le condizioni di salute di quel ragazzone di nemmeno 30 anni fossero andate peggiorando di giorno in giorno.
Su e giù dall'infermeria
Antonino sta male da giorni. Quando la mattina del 18 viene trasportato in infermeria accusa vomito e febbre e non riesce a mangiare niente da più di un giorno senza vomitare. E non è la prima volta che il detenuto fa visita all’infermeria. C’era andato la prima volta dodici giorni prima, il 5 di marzo, accusando i primi segni di un malessere che lo porterà alla morte in meno di due settimane. Misurata la febbre, anche in quella occasione, Saladino viene rimandato in cella ma le cose non migliorano, anzi. Il malessere accusato dal giovane è continuo e cresce col passare dei giorni. Ne sono certi i detenuti che dividevano con lui la stessa cella del carcere reggino e che, sollecitati durante le indagini difensive, hanno dichiarato di come, in quei giorni lo stesso Saladino si fosse recato in infermeria numerose volte senza peraltro ricevere altra assistenza che una bustina di antistaminici. La mattina del 18 le cose ormai sono precipitate. Antonino Saladino fa avanti e indietro tra la cella e l’infermeria altre tre volte quel giorno. Alle 15.30 prima e poi di nuovo alle 19.30, prima dell’ultimo viaggio, quando manca poco a mezzanotte e quando ormai risulta vana anche la telefonata al 118, con i medici del pronto soccorso che non possono fare altro che constatare la morte del ragazzo.
Alla base di quel malessere c’era un’infezione che è degenerata provocando la morte del detenuto ( in tempi brevissimi sostiene il perito dell’accusa, in tempi più dilatati e convergenti con le testimonianze dei compagni di cella, secondo il perito di parte nominato dal legale dei familiari della vittima). Forse una disattenzione, forse una sottovalutazione, ma nessuno, nel periodo in cui Saladino lamenta sempre gli stessi sintomi – febbre e vomito – pensa di fargli un semplice emocromo. La diagnosi è sempre la stessa: influenza. Non si accorgono nemmeno delle numerose chiazze scure provocate dalle emorragie interne che sono comparse sul corpo del ragazzo e che vengono invece notate dai suoi compagni di cella che raccontano tutto all’avvocato. Una morte che forse poteva essere evitata e che invece si va ad aggiungere alle tante tragedie che si susseguono nelle carceri italiane e su cui si è mossa anche la magistratura che, su quella morte, aveva aperto un fascicolo.
Un'indagine lunga due anni
L’indagine, tra mille lungaggini, ci mette comunque quasi due anni a fare il suo corso e alla fine, l’unica cosa di cui si è certi, è un buco nel diario clinico di Saladino che va dal 6 marzo, giorno del suo secondo viaggio in infermeria a causa dei primi sintomi del malessere, al 18, giorno in cui si chiude il suo calvario. Su questo punto, le testimonianze dei detenuti, accolte come veritiere dal Gip che ha disposto un supplemento d’indagine, sono concordi.
Antonino Saladino stava male da giorni e più volte si era recato in infermeria per farsi visitare, ma di quelle visite, sui registri ufficiali della struttura medica del penitenziario, non c’è traccia. Tanti i non ricordo registrati dagli investigatori della penitenziaria ( che hanno svolto in questa indagine le funzioni di polizia giudiziaria) tra i sanitari che hanno prestato servizio nei giorni in cui Saladino avrebbe fatto la spola tra il suo letto a castello e la brandina dell’infermeria. «Noi abbiamo fiducia nella giustizia – racconta l’avvocato Albanese –, ovviamente si spera di recuperare il troppo tempo perso finora. Bisognava mantenere alta l’attenzione su questa morte e forse non lo si è fatto fino in fondo, ma sono certo che si possa ancora raggiungere la verità dei fatti sia per quanto riguarda le cause della morte, sia per fare luce sul buco nel diario clinico e sulla mancata reazione dei medici del carcere all’aggravarsi del quadro clinico di Saladino».
Il ricordo
Imbianchino da anni e molto conosciuto nel quartiere, nel carcere di Arghillà Antonino Saladino c’era arrivato in seguito al suo arresto di un anno prima. Una storia di droga che lo vedeva coinvolto con un ruolo minore e per cui era in attesa di giudizio. «Nino era un ragazzo come tanti – ha detto durante un convegno sulla sanità nelle carceri la madre della giovane vittima, da quel 18 marzo in prima linea nella ricerca della verità e in questi giorni impegnata in una dura lotta contro il Covid – lavorava come imbianchino e si dedicava a me e alla sorella. È entrato in carcere perché sospettato di un reato, ma non era un criminale, ancora doveva svolgersi un processo. Quando lo hanno arrestato era in piena salute, è morto il 18 marzo del 2018 in solitudine, con tanta sofferenza e lontano dai suoi cari. Non conosco le leggi ma penso che se lo Stato arresta una persona perché sospetta che abbia commesso un reato e lo trattiene prima ancora di giudicarlo, allora è responsabile della sua persona e deve fare in modo che riceva tutte le cure, perché anche se ha sbagliato deve avere la possibilità di curarsi. Spero di cuore, come madre e come cittadina, che quello che è capitato a Nino non succeda mai più a nessun altro detenuto, perché non riesco ad accettare che la vita di una persona detenuta abbia un’importanza diversa rispetto a quella di qualunque altra persona».