ALESSANDRO PARROTTA

AVVOCATO, DIRETTORE ISPEG

' In Italia, ogni anno migliaia di persone vengono arrestate e processate pur essendo innocenti. Il processo è già una pena, che colpisce l'imputato, ma anche la sua famiglia, i suoi amici, il suo lavoro. Per questo non deve trascinarsi all'infinito, in appelli e controappelli. Quando governeremo noi, le sentenze di assoluzione, di primo o di secondo grado, non saranno appellabili'.

Queste le parole del leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi, che alla vigilia delle elezioni promette - sul fronte della giustizia penale - il ritorno all’inappellabilità delle sentenze di assoluzione, sulla falsariga dunque di quanto già previsto allora con la legge Pecorella del 2006, poi cassata un anno dopo dalla Corte Costituzionale per asserita violazione del costituzionalizzato principio di “parità delle parti processuali”. Dichiarazioni che, come ovvio, hanno scatenato, vuoi aperto consenso, vuoi ampio dissenso. Come noto, la disciplina dell’appellabilità delle sentenze penali era stata profondamente modificata con la citata legge 46/ 2006, la quale aveva operato un massiccio ridimensionamento del potere d’appello del Pm contro le sentenze di proscioglimento, in particolare prevedendone tout court la loro inappellabilità. Questo perché si era cercato di rimediare, probabilmente con un rimedio un po’ troppo radicale ma condivisibile nei fini, alle incongruenze che effettivamente sussistono nel caso di condanna per la prima volta in appello di un imputato assolto in primo grado ( di fatto all’imputato verrebbe sottratto un grado di giudizio di merito, perché non potrebbe impugnare nel merito la pronuncia che lo ha condannato in secondo grado ma solo ricorrere per Cassazione). Si trattava però - come chiosato da più osservatori - di una situazione troppo radicale perché si inseriva in maniera disorganica e incongruente nel sistema complessivo dei poteri d’appello, creando delle disparità di trattamento che, ben presto, hanno indotto la Corte Costituzionale a dichiararne l’illegittimità costituzionale.

Specularmente, condividendo l’originario intento di evitare un accanimento persecutorio da parte del Pm nella fase delle impugnazioni, si poneva anche la limitazione all’appellabilità del Pm nel caso di sentenza di condanna in primo grado, introdotta con il d. lgs. 11/ 2018 in attuazione di una direttiva di delega contenuta nella Legge Orlando ( l’odierno art. 593, comma 1, c. p. p.), possibile solo “quando modificano il titolo di reato o escludono la sussistenza di una circostanza aggravante ad effetto speciale o stabiliscono una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato”.

Ad oggi, dunque, si è invertito il paradigma: la legge Pecorella dichiarava inappellabili tanto da parte del Pm quanto da parte dell’imputato le sentenze di proscioglimento, tranne che nei casi di emersione di nuove prove, sopravvenute o scoperte dopo il giudizio di primo grado; oggi, le sentenze dibattimentali di proscioglimento rimangono sempre appellabili tranne alcune eccezioni che coinvolgono tanto il Pm quanto l’imputato.

La proposta di un ritorno alla legge Pecorella avanzata dal Presidente di Forza Italia, accolta con favore dall’Unione delle Camere Penali Italiane e con maggior diffidenza da parte dell’Anm ( che boccia in pieno la proposta, già cassata - a suo dire - dalla Consulta), avrebbe come terreno di ispirazione la Relazione della Commissione Lattanzi la quale, istituita dalla uscente ministra Cartabia, aveva già ( re) immaginato l’introduzione di una generale inappellabilità da parte del Pm delle sentenze di assoluzione in primo grado con l’ovvia previsione di contraltari tali da non pregiudicare il principio di “parità delle parti” tanto caro alla Consulta del 2007. La Commissione Lattanzi, prendendo le mosse proprio dalle recenti indicazioni della giurisprudenza costituzionale in materia di impugnazioni, rimarca con forza la “diversa quotazione costituzionale del potere di impugnazione delle due parti necessarie del processo penale: privo di autonoma copertura nell’art 112 Cost. - e, dunque, più “malleabile”, in funzione della realizzazione di interessi contrapposti - quello della parte pubblica; intimamente collegato, invece, all’art. 24 Cost. - e, dunque, meno disponibile a interventi limitativi - quello dell’imputato” ( sent. 34/ 2020). E ancora, “il potere di impugnazione della parte pubblica non può essere configurato come proiezione necessaria del principio di obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale, enunciato dall’art. 112 Cost”. La soluzione, coraggiosa, immaginata dalla Commissione sarebbe dunque quella di rendere solamente ricorribile per Cassazione, da parte del Pm, una sentenza assolutoria di primo grado ( che, come tale, non ha soddisfatto a monte il canone necessario per la pronuncia di una sentenza di colpevolezza dell’“oltre ogni ragionevole dubbio”), mezzo di impugnazione ritenuto ugualmente e maggiormente in grado di attivare il controllo di legalità ( sulla corretta applicazione della norma sostanziale), di legittimità ( su eventuali errores in procedendo) e di razionalità del giudizio di fatto ( sulla corretta applicazione delle regole della logica) della decisione. Ovviamente tale innovazione porterebbe con sé dei necessari contraltari, individuati in parte dalla stessa Commissione, che solo la dialettica parlamentare tra le diverse forze politiche potrà maggiormente enucleare, analizzare e - alla fine - dirimere. Si tratta di una proposta, quella del Presidente di Forza Italia che, analizzata in un’ottica apartitica e senza ideologie, potrebbe contribuire a ridisegnare il complessivo sistema delle impugnazioni, e dell’appello in particolare, all’insegna di una maggior ( e forse definitiva) chiarezza interpretativa e dogmatica sulla natura di tale mezzo di impugnazione a tutto favore dell’efficienza e della certezza della Giustizia penale italiana, esigenze quest’ultime costantemente richieste e auspicate dalle Istituzioni sovranazionali.