«Mi è stato consigliato di rimanere in silenzio fino a quando non saranno scaduti i termini per l'appello, ma francamente mi sono stancato di avere paura». Alberto Alatri, ex direttore amministrativo della Sogin (Società Gestione Impianti Nucleari), è stato assolto con formula piena - «perché il fatto non sussiste» - dall'imputazione di turbativa d'asta nell'inchiesta su Expo 2015, per l'appalto di una discarica radioattiva. Gli stessi giudici, nelle motivazioni, hanno definito il capo di imputazione «evanescente, la cui rarefazione descrittiva è riflesso evidente ed ineluttabile di un patrimonio indiziario altrettanto impalpabile e fumoso». In sostanza un'accusa senza prove, che ha sottoposto Alatri ad un calvario di indagini dal dirompente eco mediatico. Il clamore scuscitato dalla vicenda ha fagocitato la sua vita professionale: «Sono dovuto ripartire, a cinquant'anni, da una reputazione distrutta. I cacciatori di teste delle società me lo hanno detto chiaramente: "il tuo profilo sarebbe perfetto, ma con quello che si legge su di te nel web non possiamo assumerti"». Oltre al danno di aver subito un procedimento penale fondato sul nulla, infatti, ha dovuto fare i conti con la beffa di come i media abbiano dato enorme risalto all'indagine e quasi nessuna, invece, alla sentenza finale di assoluzione. «Mi piacerebbe che, invece di dover parlare io, fosse la verità giuridica a chiarire le cose. Lo dico per me, ma anche per le mie figlie». Il calvario è cominciato l'8 maggio 2014, giorno della perquisizione nella sua casa. «Pensi che ho aperto la porta in accappatoio, tanto non me la aspettavo. Un approccio molto naive, perchè davvero non avevo nulla da nascondere». Il giorno dopo, Alatri torna alla Sogin, come ogni mattina. Alatri è tranquillo, crede che la bolla scoppierà in un nulla.Sui giornali, però, iniziano a trapelare le prime informazioni sull'indagine, e il lunedì successivo arriva la telefonata. «Mi hanno intimato di lasciare il mio ufficio e hanno addirittura mandato la guardia giurata ad accompagnarmi alla porta, perchè mi ero trattenuto qualche minuto. Un licenziamento in tronco». Da quel momento, la sua vita cambia. «Pochi giorni dopo ho i primi contraccolpi di salute, ho avuto un forte attacco epilettico a causa dello stress ed è iniziato un anno di calvario medico». Senza lavoro e impossibilitato a trovarne un altro, Alatri inizia a lavorare in un bar, «per distrarmi dal processo e allontanarmi dalla mia vita di prima, ma anche per l'esigenza per mantenere la mia famiglia», ha raccontato. Poi, lentamente, l'inchiesta si sgonfia e - tra un pellegrinaggio e l'altro tra Roma e Milano per parlare con i pm - arriva la sentenza di assoluzione. «Il ricordo peggiore è stato il colloquio con un pm, al quale il mio avvocato aveva chiesto copia di un'ordinanza. Ce la negarono perché era secretata, peccato che fosse già stata pubblicata su molti quotidiani. Mi dissero "La scarichi da internet"». Proprio tutte le informazioni trapelate sulla stampa sono state, paradossalmente, ciò che ha danneggiato di più Alatri. «Il diritto all'oblio è un'utopia, ma io speravo almeno che la mia storia venisse raccontata tutta, dall'inizio alla fine. Invece a nessuno è importato dell'assoluzione». Oggi ha lasciato il bar ed è tornato a lavorare con i numeri: «ho rispolverato il titolo di commercialista e lavoro come consulente, da zero e passo dopo passo».