Il divieto di misure contrarie al senso di umanità è il senso più alto della nostra Costituzione. Ed è contenuto nell’articolo 27, quello secondo cui le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. È il senso più alto, proprio perché la nostra “Carta più bella del mondo” è ispirata ai principi della difesa massima dei diritti individuali, delle libertà civili e politiche negate nell’esperienza del ventennio fascista.

La nostra Costituzione è esattamente nata da una coscienza unitaria e lo si evince dalla triplice firma apposta alla sua promulgazione del 27 dicembre 1947. Personalità provenienti da visioni politiche differenti e soprattutto da una dura esperienza carceraria: la firma di Enrico De Nicola, capo provvisorio dello Stato, erede della tradizione liberale; la firma di Umberto Terracini, presidente dell’Assemblea costituente e fondatore con Gramsci e Togliatti del Partito comunista italiano; la firma di Alcide De Gasperi, presidente del Consiglio e già primo successore di don Luigi Sturzo alla segreteria del Partito popolare. E l’unione di tali visioni rappresenta un carattere compromissorio che, lungi dall’essere una connotazione negativa, rappresenta anzitutto un elemento ineliminabile della nozione stessa di patto ( con- promettere, cioè permettere insieme, impegnarsi su qualcosa) tra forze sociali e politiche diverse, come dato storicamente incontrovertibile. Parliamo di un punto di incontro tra diversi umanesimi: cattolico, liberale e socialista.

Quando la commissione per la Costituzione ha votato l’articolo 27, c’è stato un dibattito che oggi paradossalmente sarebbe impensabile. Un vero paradosso, visto che le personalità politiche della commissione erano appena reduci da dittatura, carcere, violenza e morte. Eppure la loro discussione non era sull’innalzamento della qualità delle pene. Basta leggere il resoconto stenografico della seduta del 25 gennaio 1947. C’è Umberto Nobile del Partito comunista, al quale sembra che parlare di «trattamenti crudeli e disumani» dia quasi il pretesto per usarli e ritiene perciò molto più rispondente ed ampia la formula: «Le pene e la loro esecuzione non possono essere lesive della dignità umana». Spiega che nell'articolo proposto dal Comitato di redazione si dice che «le pene devono tendere alla rieducazione del condannato». Ha creduto di dire in modo più chiaro ed esplicito: «Esse devono avere come fine precipuo la rieducazione del condannato allo scopo di farne un elemento utile alla società».

Interviene però Mario Cevolotto del gruppo parlamentare “Democrazia del lavoro” che intende chiarire perché — a parte le formule che possono essere accettate o meno — in seno alla prima Sottocommissione non si è voluto risolvere la questione della finalità della pena. Spiega che la pena ha — secondo alcuni — un fine di intimidazione; secondo altri, un fine di prevenzione; per altri ancora, deve avere soltanto il fine della rieducazione del colpevole.

Dice che si è voluto evitare di accettare nella Costituzione una di queste teorie, trattandosi di materia di Codice penale. Ecco perché si è usata la parola «tendere», perché si è voluto dire, in un senso altamente sociale e umano, che una delle finalità della pena in tutti i casi deve essere la rieducazione del condannato. Aldo Bozzi pensa che la formula proposta dagli onorevoli Umerto Nobile e Umberto Terracini non sia molto felice, perché il fatto stesso della pena è già qualche cosa che intacca questo patrimonio morale che è la dignità umana. Secondo lui il concetto che si deve esprimere riguarda, quasi direbbe, il trattamento fisico, cioè che la pena deve essere scontata con modalità tali che non siano disumane, crudeli.

In sostanza, leggendo il dibattito, non c’è discordia sulla necessità di tale articolo in Costituzione, ma sul fatto di renderlo più “umanitario” possibile. Oggi, invece, c’è chi vorrebbe modificarlo in senso peggiorativo.