Il carcere di Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta, è stato teatro di un nuovo tragico evento. Un detenuto con disagi psichici si è impiccato nella sua cella. Nonostante i soccorsi della Polizia penitenziaria e dei sanitari, il detenuto non ha potuto essere salvato.

A dare la notizia è il Segretario Generale della Uilpa Polizia Penitenziaria, Gennarino De Fazio, il quale ha sottolineato che si tratta del 15esimo suicidio di un detenuto nel corso dell'anno, ricordando che nel 2022 si sono già registrati 84 suicidi in carcere. Un tragico record. De Fazio ha definito la situazione una “vera e propria carneficina”, che fa pensare a una “pena di morte” di fatto. Secondo De Fazio, il sovraffollamento detentivo, le inefficienze organizzative, le strumentazioni e le tecnologie inadeguate, e gli organici carenti per tutte le figure professionali, stanno mettendo a repentaglio la sicurezza di reclusi e operatori. Solo alla Polizia penitenziaria mancano 18mila unità. Tutto ciò impedisce il perseguimento degli obiettivi indicati dall'articolo 27 della Carta costituzionale e richiede interventi urgenti.

De Fazio ha quindi chiesto l'introduzione di misure emergenziali e parallele riforme strutturali che reingegnerizzino l'architettura dell'esecuzione penale e, in particolare, quella carceraria. L'introduzione dei medici del Corpo di polizia penitenziaria, appena approvata dal governo con il decreto PA, è un passo in avanti positivo, ma ora bisogna concretizzarlo e accelerare su tutto il resto.

Questo è l'auspicio del segretario, che conclude ricordando anche le parole del sottosegretario al ministero della Giustizia, con delega al Dap, Andrea Delmastro delle Vedove, che ha annunciato interventi per concretizzare gli interventi promessi. Si aggiunge anche il Sappe chiedendo urgenti provvedimenti. Nel frattempo, la carneficina continua. C’è chi obietta che anche nel mondo libero le persone si suicidano. Vero, e i motivi sono diversi, così come anche in carcere non è possibile ridurre la questione a una sola causa. Ma la costrizione, l'isolamento, porta inevitabilmente ad aumentare la voglia di farla finita. Lo abbiamo registrato durante il lockdown, quando c'è stata una impennata di suicidi nel “mondo libero”. Secondo i dati dell'Osservatorio suicidi della Fondazione BRF- Istituto per la Ricerca in Psichiatria e Neuroscienze, da gennaio ad agosto 2022 sono state 351 le persone che si sono tolte la vita nel nostro Paese e 391 quelle che ci hanno provato. E sono numeri al ribasso, perché in particolare per i tentati suicidi c'è un sommerso di cui non si parla.

In carcere, la questione è inevitabilmente amplificata. Le persone, i volti, le aspirazioni, i sentimenti, le abitudini, che prima rappresentavano la vita, schizzano all’improvviso da un passato che appare subito remoto, lontanissimo, quasi estraneo.

Oppure, peggio ancora, il tempo vuoto carcerario non ti distoglie da tutti i tuoi pensieri rivolti su quelle persone, quell'ambiente in cui vivevi, che ti provava sofferenza, alienazione, frustrazione. Così come ci si suicida per fuggire da una situazione percepita come insopportabile, oppure per espiare una colpa vera o immaginaria. Oppure per la vergogna, per la paura, per il fine pena mai, ma anche quando arriva lo stesso fine pena e prevale il timore di non sapere più cosa fare e dove andare in mancanza di affetti, di lavoro, punti di riferimento. Che fare? Ci sono richieste e battaglie che provengono dall’interno, e per ora non recepite dalla politica. L’aumento dell’affettività che richiede più colloqui, più telefonate e valorizzazione della tecnologia come le videochiamate.

Durante l’emergenza pandemica si è avuto un ampliamento di tutto ciò. Finita l’emergenza, si è ritornati indietro. Importante, soprattutto per affrontare la solitudine, sono i volontari e tutto il mondo del terzo settore. Valorizzarli e dare più spazio possibile. E poi c’è la questione del sovraffollamento. Da tempo c’è il Partito Radicale, le associazioni come Antigone o “Nessuno Tocchi Caino”, ma anche nuove realtà come “Sbarre di Zucchero”, che chiedono di ampliare le misure alternative. Senza contare l’ennesima osservazione da parte del Comitato europeo per la prevenzione della tortura, il quale chiede una strategia coerente più ampia, che copra sia l’ammissione in carcere sia il rilascio, per assicurare che la detenzione sia veramente la misura di ultima istanza.

È rimasto ancora nel cassetto la proposta di legge avanzata dal deputato Roberto Giacchetti di Italia Viva, sulla liberazione anticipata speciale. Proposta che Rita Bernardini di “Nessuno Tocchi Caino” ha rilanciato nel tempo, anche attraverso lunghi scioperi della fame. Quest’ultima, già varata a suo tempo nel 2013 dopo la sentenza Torreggiani che condannò l'Italia per il sovraffollamento, si tratta di una detrazione di 75 giorni (anziché 45) per ogni singolo semestre di pena scontata interamente in carcere. La liberazione anticipata speciale ha avuto effetti solamente dal primo gennaio 2010 al 23 dicembre 2015, periodo di tempo durante il quale il detenuto che ha mostrato di mantenere una buona condotta ha appunto potuto ottenere uno sconto di 75 giorni ogni semestre, anziché 45 giorni. E poi c’è la questione dell’isolamento. Una pratica che può comportare gesti estremi del detenuto, come l’automutilazione o addirittura al comportamento suicidario. Qualunque sia la ragione alla base dell’isolamento, gli effetti che questo comporta sono gravi, a volte gravissimi.

Per questo è necessario che le amministrazioni penitenziarie percorrano prima delle strade alternative. Come ha scritto ripetutamente l’associazione Antigone nei suoi rapporti, per chi è in isolamento, sia esso de jure o de facto, si dovrebbero prevedere che alcune ore al giorno, siano trascorse col resto della popolazione detenuta. La letteratura scientifica è concorde nel sostenere che l’assenza di interazioni con altri esseri umani tipica dell’isolamento penitenziario provoca danni gravissimi. Non tutte le persone reagiscono allo stesso modo.

Alcune sperimentano forme di panico poche ore dopo essere state isolate, altre sono insensibili alla mancanza di contatti umani per periodi più lunghi. “Il limite di 15 giorni stabilito dalle Mandela Rules e molte norme nazionali è un limite arbitrario: alcuni crollano prima, altri dopo. Quel che è certo però è che a lungo termine l’isolamento porta alla morte sociale. Una volta usciti dall’isolamento, spesso i detenuti si comportano come se fossero ancora isolati. Soffrono di sociofobia, perdono la capacità di interagire con altri esseri umani.

Questo risultato è l’esatto opposto di ciò che i sistemi penitenziari ufficialmente perseguono, ovvero la risocializzazione del reo”, affermano in un capitolo del rapporto, Claudio Paterniti Martell e Federica Brioschi di Antigone.