Al 28 febbraio, su 56.319 detenuti presenti nelle nostre carceri, sono 2.425 le donne ristrette. Esistono soltanto 4 istituti penitenziari esclusivamente femminili: Trani, Pozzuoli, Roma e Venezia. E sono, sempre secondo gli ultimi dati del ministero di giustizia, un totale di 622. Il resto delle detenute, quindi 1803, sono disperse nel resto delle carceri, pensate esclusivamente al maschile.

Ma non solo. Tale dispersione è anche dovuta dal vincolo di vicinanza territoriale ai propri affetti previsto dall’Ordinamento penitenziario: que lche manca, è la riorganizzazione della mappa stessa degli Istituti penitenziari, con almeno un carcere femminile per regione. Le detenute oscillano sempre tra il 4 e il 5% della popolazione carceraria. Non solo le donne in carcere sono poche, ma la maggioranza è in comunità molto piccole, all’interno di strutture disegnate per gli uomini. La bassa incidenza statistica sulla popolazione detenuta totale, potrebbe far illudere di una maggiore attenzione istituzionale nel costruire percorsi di reinserimento sociale, ma nella pratica è una causa di discriminazione. Il tempo sottratto alla vita esterna per un uomo e per una donna non hanno uguale peso, relativamente ai contesti lasciati, agli affetti, alle funzioni esercitate prima che la privazione della libertà li troncasse, alle relazioni da riannodare una volta scontata la pena.

Quasi 10 anni fa, il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria aveva attivato un apposito settore dedicato alla riflessione sulla detenzione femminile, alle proposte, al monitoraggio delle situazioni concrete. Di ciò non si è più avuta notizia. Progetto completamente abbandonato nonostante il Dap, nel 2019, ha riconosciuto che il sistema penitenziario ha, d i fato, una visione “maschio-centrica”. Così pensata al maschile che ad esempio, il 60% delle detenute non ha il bidet in cella nonostante sia previsto dalla legge. Come ha spiegato l’avvocato Carlotta Toschi su “Sbarre di Zucchero”, non ci sono norme ad hoc nella legge 26 luglio 1975, n. 354 tuttavia le disposizioni relative ai servizi sono contenute nel regolamento di attuazione . I vani in cui sono collocati i servizi igienici devono essere forniti di acqua calda corrente, calda e fredda, dotati di lavabo, di doccia e negli istituti o sezioni femminili, anche di bidet. Sempre Toschi sottolinea che le donne, in particolare, sono più a rischio degli uomini di sviluppare un’infezione urinaria. Soprattutto nel periodo delle mestruazioni hanno una maggiore necessità di igiene ma molte carceri, appunto, non offrono il bidet.

Altro problema è che le detenute vengono escluse dalla già carente offerta lavorativa e trattamentale, che si tende a proporre alla popolazione carceraria più numerosa, ovvero quella maschile. In alcune sezioni vige il vuoto trattamentale: assenza di lavoro, di progetti, di laboratori e talvolta anche delle stesse attività scolastiche, per la mancanza dei numeri minimi per comporre una classe. Ristrette in piccole sezioni, non di rado si devono accontentare di fare piccoli lavori a maglia o all’uncinetto per riempire in qualche modo il tempo vuoto del carcere. Attività figlie di una visione stereotipata per cui le donne possono solo fare questi tipi di lavoro. La discriminazione, però, non nasce da una volontà istituzionale, ma dalla mancanza di un pensiero sulla differenza di genere. Quando una donna finisce in carcere, fuori ci sono sempre i figli, una madre, un padre, a volte anche un marito che restano abbandonati e senza sostegni. E così la detenuta, oltre al peso della carcerazione, si sente colpevole di averli lasciati soli, si sente responsabile per non poter far nulla per loro. Non di rado ne derivano conseguenze fisiche. Dai disturbi al ciclo mestruale, all’ansia, ma anche depressione, anoressia e bulimia. Vi è stata nel tempo una persistente difficoltà culturale ad affrontare la problematica della donna-delinquente-detenuta, in quanto, storicamente, la donna deviante, che cioè contravveniva alle regole che la società (maschile), non è mai stata considerata, in ragione della sua inferiorità biologica e psichica, come portatrice cosciente di ribellione, ma o una “posseduta” (la strega) o una malata di mente (l’isterica). Non si poteva ammettere che la donna potesse coscientemente desiderare di infrangere le regole.

La donna delinquente è sempre stata stigmatizzata di aver abiurato la propria natura femminile dedita alla maternità e alla cura; colpevole dunque, di fronte alla legge degli uomini, e a quella di natura. Nella società libera non è corretto – riferendosi alle donne – parlare di soggetti vulnerabili. Però in carcere, in una situazione privata della libertà, tale definizione è appropriata. Lo spiega il rapporto del Garante nazionale delle persone private della libertà del 2019. Parlare di soggetti vulnerabili è giusto, perché «il carcere è un’istituzione punitiva e di controllo pensata per i maschi e continua a essere tale, pur tra le molteplici voci che si alzano a dire che l’esecuzione penale è uguale per tutti e al contempo attenta a ogni specificità, a cominciare da quella di genere».

Da meno di un anno, le donne hanno deciso di organizzarsi. Tutto è partito dalla ex detenuta Micaela Tosato che ha deciso di uscire allo scoperto soprattutto dopo il suicidio in carcere di Donatella Hodo, una giovane madre di 27 anni reclusa al carcere veronese di Montorio. Si è dato così vita al movimento “Sbarre di Zucchero” . Nel giro di pochi mesi è cresciuto e si sono aggiunte nuove persone. Ad esempio si è aggiunta Monica Bizaj, sempre impegnata per i diritti, fino ad arrivare a giuristi e tanti altri addetti ai lavori. In soli 4 mesi hanno organizzato convegni, beneficienze, e ha aperto altri due distaccamenti a Roma e a Napoli. Le donne si organizzano. Così come, da non dimenticare, che nel carcere di Torino, da tempo, le detenute si sono organizzate tramite numerose iniziative come lo sciopero della fame (grazie anche all’appoggio dell’instancabile attivismo di Rita Bernardini di Nessuno Tocchi Caino) per sensibilizzare la politica ai problemi devastanti del sistema penitenziario.