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Aldo Masullo ha nel proprio percorso di filosofo la ricchezza di una grande capitale del pensiero come Napoli e di una straordinaria acropoli dello studio come l’università Federico II. Lì Masullo, nato ad Avellino 95 anni fa, è stato per molti lustri direttore del dipartimento di Filosofia. Interpellato sul rancore che acceca il nostro tempo, e sul valore di un riconoscimento alla figura dell’avvocato, su una norma costituzionale che ne sancisca il ruolo centrale nella democrazia, il maestro del pensiero risponde che sì, «le parole non determinano il destino di una funzione, eppure da tale riconoscimento potrebbe venire un sostegno alla coscienza». Ne potrebbe venire, dice Masullo, «una valorizzazione solenne non solo della giustizia in generale, ma in particolare di uno strumento essenziale della giustizia qual è la difesa di chiunque venga incolpato.
E da questo, un sostegno alla coscienza che si dovrebbe avere della giustizia». Nel filosofo che è stato a lungo anche parlamentare c’è una profonda sensibilità, che non finisce mai in rassegnazione, per lo stato delle nostre carceri, per le garanzie nel processo e nei luoghi di espiazione, tanto da farlo diventare nei mesi scorsi il punto di riferimento della schiera di intellettuali favorevoli alla riforma penitenziaria. Con lui, in calce al suo appello, firmarono i vertici dell’avvocatura, alcuni intellettuali e magistrati: una testimonianza di valore che fece sentire meno soli i radicali nella loro battaglia. Ma che si è infranta contro il muro di un odio sociale arrivato, insegna Masullo, a trasformarsi «da sadismo in odio anche per se stessi, per le proprie posizioni poi disconosciute, dunque in viltà». Un’inesorabile deriva dell’umano, così visibile nella nostra vita pubblica e definita nei suoi elementi costitutivi dall’ultima opera del filosofo, L’Arcisenso, il cui sottotitolo spiega già perfettamente l’odio come Dialettica della solitudine.
Il Cnf, massima istituzione dell’avvocatura, chiede che in Costituzione si richiami espressamente l’indipendenza e la libertà dell’avvocato: potrebbe essere un richiamo anche all’intangibilità del diritto di difesa e, dunque, allo Stato di diritto come architrave della democrazia?
È vero che non sono le parole, le formule, quelle che in ultima analisi determinano il destino di un’istituzione o di una funzione. A decidere è lo spirito del tempo, la visione che in una società si diffonde. Ma non si può negare che una pronuncia solenne, istituzionalizzata, possa essere un elemento di sostegno per una ripresa della coscienza che si dovrebbe avere, di certe forme della vita sociale, di certe funzioni istituzionali e in particolare della giustizia.
E a mancare, ora, è appunto la coscienza?
La questione non riguarda l’attività quotidiana dell’avvocatura o della magistratura: quello che mi pare si vorrebbe riportare all’attenzione di tutti è la necessità della giustizia intesa come un sentimento di fondo, senza cui una società non sopravvive. E questo è un punto che va condiviso, nella intenzione espressa dall’avvocatura. Ecco, il riconoscimento in Costituzione potrebbe determinare questa solennizzazione. Non so quante persone leggano la Costituzione, ma certamente qualcuno la leggerà, e potrà dunque cogliere questa valorizzazione solenne della funzione non solo della giustizia in generale, ma di uno strumento essenziale della giustizia qual è la difesa di chi venga in ogni circostanza incolpato. Prima di un principio giuridico costituzionale, è un principio di civiltà.
Il richiamo a questo principio si è fatto particolarmente necessario?
Anche utile. La funzione del tribunale, della giustizia, è essenziale non solo per la sua azione propulsiva di un sentimento di partecipazione alla vita civile, ma anche da un punto di vista in apparenza banale, ma in realtà decisivo qual è quello economico. Una giustizia che funzioni bene consente all’attore economico di essere garantito rispetto al modo in cui deve comportarsi e di dare un contributo sostanziale alla vita collettiva.
A proposito: l’ansia sempre più diffusa di veder punito chi è solo sospettato è la deformazione di un disagio che ha appunto un’origine economica?
I grandi pensatori ci insegnano che la psicologia umana è psicologia dell’odio. Come osserva Rousseau, l’uomo nella società è guidato non solo dall’amore di sé ma anche dall’amor proprio, ossia dalla competizione. Che si traduce nel voler essere superiore, più ricco, più potente dell’altro. Nella natura umana è connaturato l’antagonismo, l’aspirazione ad essere il primo della classe. Ebbene, da qui viene l’odio sociale: ossia il vedere l’altro come colui che ci ostacola, che gareggia in modo scorretto, sleale, che bara. È l’esigenza della propria personale supremazia che ci induce a veder male gli altri, a parlarne male tanto più se si tratta di amici, giacché chi ci è amico è anche più vicino, dunque gareggia più immediatamente con noi. Ecco perché in un tempo come il nostro, fatto di ingiustizie patite, di un’economia sconquassata, è così facile alimentarsi dell’odio per l’altro, provare soddisfazione quando l’altro è colpito da un’accusa. In quei momenti è come se ci si dicesse ‘ ecco, è successo proprio quello che doveva succedere, quell’uomo è un mascalzone proprio come io pensavo…’. È sadismo che nasce dall’aspetto competitivo, elemento di base della nostra struttura sociale.
Il meccanismo dell’odio che lei ha scomposto con perfetta chiarezza arriva anche a farci chiudere gli occhi sul fatto che far scontare la pena in condizioni di dignità favorirebbe il positivo reinserimento del condannato, con vantaggi per tutti?
Se c’è un moto spontaneo nell’uomo come essere sociale, che vede l’altro come colui che ci minaccia nella sua competizione e che però compete in modo fraudolento, c’è anche chi strumentalizza questo stato d’animo diffuso. È facile, per chi vuole conquistare il Paese, approfittare di questa propensione dei sudditi: parola che scelgo non a caso, perché il potere ritiene sempre che gli altri siano sudditi, non persone da considerare pari. E come si fa a tenere buoni i sudditi? Basta rinfocolare il loro odio sociale, la loro paura di essere sopraffatti da altri.
È decisivo il peso della manipolazione politica, dunque. Lei, quando è divenuto il punto di riferimento di una mobilitazione intellettuale a favore della riforma penitenziaria, ha verificato che la sua iniziativa di sostegno alla campagna del Partito radicale era condivisa solo dagli avvocati, da alcuni altri intellettuali ben presenti sul tema e da qualche magistrato come Armando Spataro: uno schieramento molto circoscritto. Questo le ha dato inquietudine?
Sa, le preoccupazioni per il destino della nostra umanità non nascono con la vicenda della riforma penitenziaria. Ma certo questa ci mette dinanzi a un’altra modalità di espressione dell’odio sociale, che non è solo attacco, polemica, volontà di offendere l’altro, ma può realizzarsi anche in forma passiva, ossia con l’assenza di atti che diano giustizia alla vita sociale. Nel caso della riforma penitenziaria, persino coloro che politicamente, nel luogo più appropriato, il Parlamento, avevano sostenuto quella legge, poi non hanno avuto il coraggio di difenderla. È un fatto che testimonia l’affermarsi sempre più diffuso di una visione quasi fobica, di una società fobica, che odia e in cui si finisce per odiare tutto. Tale sentimento si realizza appunto non solo nel prendere una posizione ma anche nell’abbandonarla, nel lasciarla cadere. Come se il sadismo si traducesse nel masochismo, nell’odiare anche se stessi. Nient’altro che la definizione della viltà.