Il Garante Nazionale dei Diritti delle Persone Private della Libertà Personale (il Presidente Felice Maurizio D'Ettore e i componenti Irma Conti e Mario Serio), ha espresso soddisfazione per la sostituzione della misura detentiva a carico di Marjan Jamali, una cittadina iraniana detenuta a Reggio Calabria, con gli arresti domiciliari. Questa decisione, presa dalla magistratura in attesa dell’esito delle indagini, rappresenta un significativo passo avanti nella tutela dei diritti umani. Il Garante, attivando i suoi mandati nazionali e internazionali, ha giocato un ruolo cruciale nella vicenda, incontrando Jamali durante la sua detenzione e seguendo da vicino la sua richiesta di protezione internazionale. Il caso della giovane iraniana, detenuta per sette mesi sotto accuse controverse, mette in luce diverse problematiche del sistema penitenziario italiano, in particolare l'uso eccessivo della custodia cautelare.

Secondo i dati forniti dal Garante nazionale, al 31 maggio 2024, 9.407 persone sono detenute in misura cautelare negli istituti penitenziari italiani, contribuendo significativamente al sovraffollamento delle carceri. Questa situazione è aggravata da un preoccupante tasso di suicidi tra i detenuti: nel 2024, fino al 3 giugno, ci sono stati 38 suicidi (nel frattempo si aggiunge l’ennesimo suicidio avvenuto al carcere romano di Regina Coeli ndr.), di cui 15 (40,54%) riguardavano detenuti in misura cautelare. Questi numeri sono in aumento rispetto al 2023, quando i suicidi complessivi furono 68, di cui 26 (38,23%) in custodia cautelare. Questi dati sollevano serie preoccupazioni sulla gestione della custodia cautelare, che dovrebbe essere usata come ultima risorsa e non come una pena anticipata. È essenziale, come ribadito dal Garante nazionale, un uso equilibrato di questa misura, nel rispetto dei principi costituzionali e processuali.

LA STORIA DI MARJAN JAMALI UNA LOTTA PER LA GIUSTIZIA

La vicenda di Marjan Jamali è emblematica delle complessità e delle sfide del sistema giudiziario e penitenziario. Jamali, una 29enne iraniana, è arrivata in Italia con un viaggio della speranza via mare, sbarcando a Roccella Jonica. Accusata di essere una scafista, ha trascorso sette mesi in carcere a Reggio Calabria, periodo durante il quale ha costantemente proclamato la propria innocenza. La donna ha finalmente potuto riabbracciare il figlio di otto anni, accolto nel centro di accoglienza a Camini gestito dalla cooperativa “Jungi Mundu”. Durante la sua detenzione, Jamali ha dichiarato di essere venuta in Italia per offrire una vita migliore a suo figlio, sottolineando il dramma della separazione forzata.

Il processo contro Jamali inizierà il prossimo 17 giugno. Le accuse contro di lei provengono da tre uomini che erano a bordo dell’imbarcazione partita dalla Turchia e che, secondo la sua testimonianza, avrebbero abusato di lei. Accanto a lei, anche Amir Babai, un 31enne che avrebbe cercato di difenderla dagli abusi e che, per questo, avrebbe subito la ritorsione dei tre uomini. Questi, una volta sbarcati e fatti perdere le proprie tracce, hanno accusato Jamali e Babai di essere i responsabili del traffico di esseri umani.

Il caso di Marjan Jamali non solo evidenzia le difficoltà e le ingiustizie che possono colpire i migranti in cerca di una vita migliore, ma solleva anche questioni fondamentali sulla gestione delle misure cautelari e sulle condizioni di detenzione in Italia. La soddisfazione espressa dal Garante nazionale per la concessione degli arresti domiciliari a Jamali rappresenta una vittoria per i diritti umani, ma è anche un promemoria della necessità di un approccio più umano e giusto nella gestione della giustizia. In un contesto di sovraffollamento carcerario e di preoccupante aumento dei suicidi tra i detenuti, per il Garante è imperativo che le misure cautelari siano applicate con maggiore discernimento e nel pieno rispetto dei diritti umani. Il sistema giudiziario deve garantire che la custodia cautelare non diventi una pena anticipata, ma rimanga una misura eccezionale, utilizzata solo quando strettamente necessario.

E a proposito di custodia cautelare, martedì sera si è ucciso l’ennesimo detenuto. Aveva 31 anni, originario del Pakistan, e si è tolto la vita impiccandosi nella sua cella del carcere romano di Regina Coeli. L'uomo, in attesa di primo giudizio per rapina e lesioni, era detenuto nello stabilimento penitenziario da settembre dello scorso anno. I soccorsi della Polizia Penitenziaria e dei sanitari, giunti tempestivamente sul posto, non sono purtroppo riusciti a salvarlo. Si tratta del 39esimo suicidio di un detenuto dall'inizio dell'anno, a cui si aggiungono i 4 casi di agenti di Polizia Penitenziaria che hanno scelto la stessa tragica strada. «Non si attenua la drammatica situazione all'interno delle carceri italiane - denuncia Gennarino De Fazio, Segretario Generale della UilPa Polizia penitenziaria - mentre la politica assiste impassibile a questo scempio. È necessario un intervento immediato e concreto per garantire la sicurezza e la salute di chi vive e opera all'interno degli istituti penitenziari».