L’annus horribilis dei diritti. Il 2020 dell’avvocatura si potrebbe riassumere così, tra il tentativo di smaterializzare il processo, ridisegnando (in peggio) il diritto alla difesa per contrastare la pandemia, e la marginalizzazione dei liberi professionisti nelle misure emergenziali.

Dopo mesi di paralisi del sistema giustizia, con il blocco dei processi da marzo a maggio scorso e lo spettro evocato, e poi non realizzato, del processo da remoto, per affrontare la seconda ondata del virus il governo ha pensato ad una soluzione che, di fatto, secondo l’avvocatura, rischia di peggiorare il problema, oltre che di crearne qualcuno nuovo: una Camera di consiglio da remoto per i giudizi in appello. Con un processo di fatto cartolare, senza l'intervento del pm e dei difensori, salvo che una delle parti faccia richiesta di discussione orale o che l'imputato manifesti la volontà di comparire. A poter visionare gli atti sarà solo il relatore, data la lontananza dalla Cancelleria della sezione, rendendo la collegialità, dunque, un lontano ricordo. L’immediata conseguenza è che la maggior parte degli avvocati, per evitare tale rischio, chiederà la trattazione orale, anche nei casi in cui sarebbe stato possibile farne a meno. Con l’effetto, dunque, di aumentare, anziché diminuire, le presenze nelle aule.

LA CRISI DELLO STATO DI DIRITTO

Se è vero che le difficoltà non nascono con il Covid, di sicuro si può dire che la pandemia ha accentuato i problemi strutturali della giustizia. Ne è certo Vittorio Manes, professore ordinario di diritto penale all’università di Bologna, secondo cui il 2020 è stato un anno difficilissimo per l’avvocatura e per i diritti. «C’è sempre un equilibrio molto difficile tra tutela della salute pubblica ed esigenze di funzionalità della giustizia - spiega -. Ma bisogna comprendere che per il processo penale la compresenza fisica è necessaria ed è difficile possa rinunciarvisi, dopo aver visto via via liofilizzarsi, se non scomparire, alcuni principi cardine come oralità, immediatezza e concentrazione. La fisicità è un requisito determinante e centrale». Ma anche le modifiche relative alla sospensione dei termini della prescrizione e al prolungamento di quelli per la custodia cautelare rischiano di non rispondere al quadro costituzionale, secondo molti giuristi, specie quando sono munite di effetti retroattivi. Dubbi che la Consulta non ha fatto propri, ritenendo la sospensione della prescrizione non in contrasto con la Costituzione. Una decisione, commenta Manes, «che apre ad una scenario di processualizzazione che suscita opinioni critiche. Fino a poco tempo fa - aggiunge - la prescrizione era ritenuta un istituto di diritto sostanziale, quindi direttamente connesso alle garanzie di legalità e irretroattività. Questi distinguo, in qualche modo, aprono una breccia che potrebbe consentire di far fluire molte diverse ipotesi di sospensione retroattiva della prescrizione ai danni dell’imputato, colui che ne pagherà realmente il prezzo».

Una cartina di tornasole dello Stato di diritto può arrivare proprio dalle decisioni della Corte Costituzionale, spesso sismografo della tenuta delle garanzie. «Osserviamo luci e ombre - continua Manes -. L’anno si è aperto con una decisione storica, quella sulla irretroattività delle norme penitenziarie che avessero effetti afflittivi e punitivi sulla sfera giuridico penale del singolo. Le ultime decisioni, non solo quella sulla prescrizione, ma anche quella sulla impossibilità di accedere al rito abbreviato per i reati punibili con l’ergastolo, segnalano una diversa sensibilità e un diverso rigore nell’affermare e proteggere le garanzie. Il contesto è emergenziale e comprendiamo tutte le necessità di primaria protezione di alcune esigenze di salute, però questo non dovrebbe mai consentire di accettare deroghe rispetto a garanzie fondamentali dello Stato di diritto, perché lo stesso è pensato proprio per reggere all’impatto di contesti eccezionali e di emergenza».

UNA CATEGORIA IN DIFFICOLTÀ

A dare un’idea di quanto sia stato duro il 2020 per la categoria ci ha pensato il Censis: il 57 per cento degli avvocati, stando all’ultimo rapporto, ha chiesto il bonus da 600 euro erogato dallo Stato per far fronte alle perdite causate dalla pandemia. I numeri finora a disposizione, sulla base dei dati contributivi relativi a luglio, parlano di una flessione delle entrate pari al 20 per cento. A spiegarlo è Nunzio Luciano, presidente di Cassa Forense: il dato, per ora, è parziale, ma basta a comprendere la situazione. Per questo l’obiettivo per il 2021, sottolinea, è creare «un nuovo tipo di welfare per i liberi professionisti, un’operazione di sistema che deve vedere in prima fila l’Adepp, l’associazione degli enti di previdenza privati». Per affrontare la crisi Cassa Forense ha messo in campo diversi bandi, con lo scopo di aiutare economicamente gli avvocati in difficoltà. Tra questi quello per le spese degli studi legali e le prestazioni assistenziali straordinarie legate al Covid, con un’indennità pensata non solo per coloro che hanno contratto il virus, ma anche per chi ha subito una quarantena forzata. «Attualmente ci sono più di 8mila domande da evadere e le risorse sono in esaurimento - spiega Luciano -. Il nostro impegno sarà di reperirle, senza dimenticare che siamo un ente che deve erogare le pensioni. La parola d’ordine è solidarietà: il più forte aiuta il più debole». Ma per il 2021 è importante anche puntare sulla formazione. «Serve un nuovo modello di avvocato, partendo da una riflessione con il Consiglio nazionale forense e le associazioni più importanti dell’avvocatura - aggiunge -. La formazione non potrà più essere quella tradizionale. L’avvocato dovrà cambiare pelle, sfruttando i nuovi fronti legati anche alle tecnologie e puntare agli studi associati e multisettoriali. Ma soprattutto serve unità: un’avvocatura divisa è debole e dobbiamo vincere i personalismi per portare avanti un progetto comune».