Per il magistrato Giorgio Fidelbo, presidente di Sezione della Corte di Cassazione, la normativa emergenziale dell’ultimo periodo ha prodotto una «politica criminale “all’impronta”». Quasi schizofrenica. O meglio, «strabica». Prendiamo il reato di abuso d’ufficio: secondo Fidelbo, l’intervento riformatore del legislatore ha finito soltanto per «depotenziarlo», realizzando di fatto «un arretramento nel contrasto alla illegalità amministrativa». Al punto che «eliminarlo del tutto potrebbe essere più coerente...».

Presidente, ci spieghi perché.

Il reato di abuso di ufficio, dopo la recente riforma operata con il decreto legge n. 76 del 2020, è stato stravolto completamente, sicché già è stata operata una sua parziale abolizione. Sono dell’idea che la formulazione precedente, quella nata con la legge del 1997, aveva migliorato sensibilmente la fattispecie penale, modellando un reato con un tasso di tipicità e di articolazione molto superiore rispetto al vecchio abuso d’ufficio, che effettivamente era stato delineato come un gigantesco contenitore, in cui confluivano diverse fattispecie, il che consentiva, effettivamente, applicazioni sorprendenti e non prevedibili da parte del giudice penale, determinando appunto la paralisi del funzionario pubblico.

Lei fa riferimento al decreto semplificazioni dello scorso luglio, con il quale il legislatore ha ristretto l'applicabilità della norma alle “violazioni di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”. Con quale effetto?

Se, come sembra, la riforma era diretta ad eliminare del tutto la possibilità che il giudice penale possa attentare alla discrezionalità amministrativa, il risultato potrà essere quello di un sindacato penale rivolto soltanto all’attività vincolata della pubblica amministrazione, coinciderà cioè con il controllo dell’amministrazione nella sua attività meno significativa, quella meramente esecutiva, diretta cioè ad occuparsi di mere bagatelle che fino ad ora il giudice penale non ha mai nemmeno considerato, mentre resteranno penalmente irrilevanti tutta una serie di condotte che la giurisprudenza faceva rientrare nello sviamento di potere: si pensi ai favoritismi indebiti, allo sfruttamento privato, alla prevaricazione arbitraria, tutte situazioni che spesso ritroviamo nelle vicende amministrative. Siamo in presenza di una riforma che persegue un obiettivo di politica criminale che appare incomprensibile, nella misura in cui finisce per innalzare un muro contro la discrezionalità dell’amministrazione, con il rischio di sottrarre al vaglio di legalità le condotte più insidiose da parte del funzionario pubblico. Una politica criminale “all’impronta”, che continua ad essere orientata dall’emergenza e che avvertiamo come strabica: dopo meno di un anno dalla legge n. 3 del 2019, meglio conosciuta come “spazzacorrotti”, che si è posta la finalità di “combattere” la corruzione e, in genere, la criminalità amministrativa con misure assai aggressive, in alcuni casi spostando il baricentro verso la legislazione in materia di criminalità organizzata, senza neppure cogliere la differenza tra i diversi fenomeni criminali, improvvisamente si assiste ad una inversione di tendenza, con un legislatore che ci consegna un abuso di ufficio totalmente depotenziato, realizzando un arretramento nel contrasto alla illegalità amministrativa. Due interventi, entrambi, fuori misura, sicuramente contraddittori.

In occasione di un convegno sul tema, Lei ha sottolineato che il problema dell'abuso di ufficio, più che la sanzione penale, è il danno di immagine prodotto dall'apertura delle indagini che finisce per ostacolare l'attività di politici e amministratori.

La riforma, che ha quasi eliminato il reato di abuso d’ufficio, non coglie l’obiettivo di mettere davvero il funzionario pubblico al riparo da iniziative giudiziarie. Non è la formulazione della norma che “paralizza” il funzionario, bensì il solo fatto che viene iniziata una indagine, magari per un reato più grave. Anche a voler ammettere che possono esservi stati casi di uso strumentale delle indagini, va comunque detto che le indagini nascono perché c’è una denuncia di un cittadino che ritiene di essere vittima di un abuso, di un sopruso, di un favoritismo a vantaggio di altri e su queste denunce il pubblico ministero non può far altro che aprire un fascicolo e iniziare l’indagine. È anche vero che nel corso delle prime indagini spesso si omettono accertamenti approfonditi e si preferisce rinviare a giudizio l’imputato. Ma è altrettanto vero che le denunce che arrivano nelle procure della Repubblica sono la conseguenza dell’incapacità della pubblica amministrazione di operare con imparzialità ed efficienza, sono il sintomo dell’incapacità dell’amministrazione di assicurare la tutela delle situazioni soggettive e degli interessi che andrebbero presi in considerazione attraverso un’attenta ponderazione e tale incapacità è causata spesso dalla stessa normativa amministrativa che è chiamata ad applicare il funzionario. La prima e più efficiente difesa del cittadino dovrebbe essere rinvenuta nelle norme che l’amministrazione deve applicare, che dovrebbero essere nitide e precise. Solo a queste condizioni le iniziative giudiziarie basate su fattispecie incriminatrici incentrate sulle modalità di esercizio del potere possono e debbono trovare un argine naturale, diversamente questo argine non ci sarà.

In molti casi le accuse per questa fattispecie finiscono con una sentenza di assoluzione. O addirittura non si giunge a processo, anche per la difficoltà di dimostrare il dolo.

Esiste un rapporto sbilanciato tra indagini avviate e le poche condanne pronunciate. Il numero dei procedimenti per il reato di cui all’art. 323 c. p. pervenuti in Corte di cassazione è sempre stato molto esiguo, con elevatissime percentuali di annullamento. Questo dato è la riprova che la riforma del 1997 aveva realizzato un forte sforzo di tipizzazione della fattispecie penale, in cui tra l’altro l’ambito di applicazione era stato fortemente limitato dalla stessa giurisprudenza, che ha sempre assegnato un rilievo selettivo al dolo intenzionale.

Quale soluzione intravede per il fenomeno della ' fuga della firma'?

Ritengo che il problema sia ancora una volta la pubblica amministrazione, che dovrebbe essere in grado essa stessa di reagire al suo interno a quelle che conosciamo essere forme di abuso di potere, di favoritismi, di preferenze indebite. Ad esempio, potrebbe essere utile ragionare su una proposta che il professore Antonio Pagliaro fece una ventina di anni fa: rivitalizzare l’azione disciplinare, prevedere sanzioni disciplinari proporzionate alla gravità del fatto, costruire un diverso rapporto con il procedimento penale al fine di evitare, ove possibile, l’applicazione della sanzione penale. L’esperienza di altri ordinamenti stranieri dimostra che il funzionamento tempestivo ed effettivo del procedimento disciplinare non rende necessaria la previsione di specifici reati e, quindi, riduce l’intervento del giudice penale sull’amministrazione.