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Nella quiete della notte, quando il nostro Paese si abbandonava al dolce respiro del sonno, il silenzio è stato rotto da un grido disperato che si è consumato tra le fiamme divoranti, dentro una cella che, ironia del destino, doveva essere un luogo di custodia e non una trappola mortale. Youssef Barsom, 18 anni, il volto giovane di una tragedia antica, è morto arso vivo nel cuore della notte, nella Casa circondariale di Milano San Vittore. Un’altra vittima del sistema carcerario italiano. Un sistema che sembra aver smarrito ogni umanità.
Era venerdì notte. Le fiamme hanno inghiottito la vita di questo giovane detenuto di origine egiziana, che si trovava dietro quelle sbarre da luglio, in attesa di giudizio per un’accusa di rapina. Un fuoco devastante si è propagato nella cella, distruggendo tutto e, soprattutto, spezzando un’altra vita. Il corpo di Youssef è stato trovato carbonizzato. Nulla hanno potuto fare gli agenti della polizia penitenziaria, intervenuti tempestivamente ma impotenti di fronte all’implacabilità del fuoco. Un fuoco che sembra alimentato non solo dai detenuti stessi, ma da anni di incuria, sovraffollamento, mancanza di risorse e abbandono.
La notizia della morte di Youssef si è diffusa rapidamente, come un vento caldo che porta con sé cenere e desolazione. Monica Bizaj, dell’associazione “Sbarre di Zucchero”, fa sapere che «chi lo ha conosciuto bene dice di lui che era un adolescente “pazzerello” ma con un cuore immenso e un sorriso dolcissimo». Un adolescente che, forse, nel suo breve tempo su questa terra, per giunta a lui straniera, cercava ancora di capire chi fosse, di trovare il suo posto in un mondo che gli aveva già voltato le spalle. Ma quel mondo, o meglio quel microcosmo fatto di mura fredde e sbarre impenetrabili, non gli ha dato il tempo di cercare. Le fiamme lo hanno portato via.
Ma il fuoco di San Vittore non è stato appiccato da un incidente del destino, ma, come emerge dalle prime indagini, potrebbe essere stato lo stesso Youssef, insieme al suo compagno di cella, ad accendere quella torcia di disperazione. Forse un gesto dimostrativo, forse un suicidio, poco importa. Ciò che conta è che dietro a quel gesto c’è una vita intrappolata. Una vita resa insostenibile da un sistema che, come un ingranaggio rotto, continua a macinare vite e dignità. Il suo compagno di cella, tratto in salvo, ha riportato solo lievi sintomi di intossicazione, ma cosa rimarrà di quella notte nei suoi occhi, nel suo cuore?
E mentre si cerca di dare un senso a questa tragedia, le voci si alzano, furiose, rassegnate, incredibilmente familiari. Perché questa non è la prima morte. Non sarà l’ultima. Gennarino De Fazio, segretario generale del sindacato Uilpa Polizia Penitenziaria, parla con durezza, descrivendo quello che è ormai diventato un vero e proprio “bollettino di guerra”. «Un’altra morte che si aggiunge ai 70 detenuti e ai 7 agenti che si sono tolti la vita dall’inizio dell’anno». Numeri che pesano come macigni su una bilancia che ormai pende irrimediabilmente dalla parte del fallimento.
San Vittore, come tante altre carceri italiane, è un carcere strapieno. Ospita 1.100 detenuti, in uno spazio che dovrebbe accoglierne meno della metà: 445. Il sovraffollamento ha raggiunto il 247%, una percentuale che dovrebbe essere un grido d’allarme ma che è ormai diventata una sinistra normalità. A fronte di questa massa di vite spezzate e rinchiuse, ci sono solo 580 agenti di polizia penitenziaria, quando ne servirebbero almeno 700. Il loro compito non è solo quello di sorvegliare, ma anche di garantire la sicurezza, la dignità e l’umanità di un luogo che è diventato un inferno in terra. Così come scarseggiano i mediatori culturali, gli etno pischiatri, psicologi e personale sanitario. Numeri che sono stati ribaditi nelle recenti visite di parlamentari, l’ultima ieri di una delegazione di Forza Italia, avvocati e associazioni, radicali in testa.
La morte di Youssef Barsom non è solo un tragico incidente. È il sintomo di un male più profondo, di una crisi che affligge il sistema carcerario italiano da anni. Una crisi che sembra crescere con il passare del tempo, come un tumore che non viene curato. San Vittore, come ha osservato Gennarino De Fazio, è ormai diventato un simbolo di questa crisi. Le condizioni sono inumane, sia per i detenuti che per il personale. Eppure, nulla sembra cambiare. Le morti continuano, le voci si alzano, la maggioranza di governo rimane inerme. Ma cosa è cambiato davvero? «Di fronte a questa situazione, da tempo sollecitiamo interventi da parte del governo che tuttavia, fino a questo momento, tardano ad arrivare. Il recente decreto carceri conteneva al suo interno solo interventi minimali che, di fatto, almeno finora non hanno avuto alcun beneficio, stante anche l'aumento delle persone detenute registrato nel mese di agosto», denuncia l’associazione Antigone.
Antonino La Lumia, presidente dell’Ordine degli Avvocati di Milano, ha lanciato un appello all’unità delle istituzioni: «In gioco c’è il nostro senso di umanità e di civiltà». E come dargli torto? Ogni morte come quella di Youssef è una ferita nel cuore di una società che dovrebbe proteggere i suoi cittadini, anche e soprattutto quelli che hanno sbagliato. Ma non ci sono solo le condizioni fisiche. Come ha sottolineato Beatrice Saldarini, coordinatrice della Commissione carcere del Coa di Milano, molti detenuti oggi soffrono di gravi problemi psichici, sono ai margini della società, abbandonati da un sistema che non sa più come gestirli. Il carcere diventa allora una discarica umana, un luogo in cui si ammassano corpi senza più speranza.
Anche le Camere Penali di Milano in un comunicato dicono chiaramente che quella di Youssef è l’ennesima morte in un contesto in cui l’insuccesso, il dolore e la morte sono diventati la norma. «La normalità è una impossibile ricerca di equilibrio tra numeri, persone, relazioni», scrivono i penalisti, sottolineando come la situazione sia sfuggita di mano a tutti. Gli interventi concreti, necessari, urgenti per ridurre il sovraffollamento e restituire dignità allo Stato stesso, sono visti con cinismo, come una “resa dello Stato”. Ma non c’è resa più grande di quella di abbandonare uomini e donne a un destino così crudele.
La liberazione anticipata, l’amnistia, l’indulto sono istituti previsti dalla Costituzione per affrontare situazioni eccezionali. E cosa, se non questa crisi, è una situazione eccezionale? Non è più pensabile che le condizioni di vita e di lavoro all’interno delle carceri italiane continuino così. Gli avvocati della Camera penale milanese affermano di non poter più accettare che San Vittore, e tante altre carceri, continuino a essere luoghi di morte. Quella di Youssef Barsom è solo l’ultima, ma quante altre dovranno ancora accadere prma che il governo decida che è giunto il momento di agire?