Il 41 bis si differenzia dagli altri regimi, non solo per le sue misure iper afflittive del tutto inutili per lo scopo, ma anche per le continue opposizioni da parte dell’amministrazione penitenziaria alle ordinanze della magistratura di sorveglianza. E questo nonostante siano ordinanze già consolidate dalle sentenze della Cassazione. Di recente, quest’ultima si è dovuta nuovamente pronunciare sul diritto del detenuto sottoposto al carcere duro di usufruire due ore d’aria all’aperto. Sistematicamente il ministero della Giustizia fa ricorso alle ordinanze che difendono tale diritto.

Il 15 febbraio scorso, la Cassazione ha depositato la sentenza numero 6358, dove ha trattato il ricorso del ministero della Giustizia contro la decisione del tribunale di sorveglianza di Torino che ha confermato il provvedimento con il quale il Magistrato di sorveglianza della stessa città in data 9 aprile 2021, accogliendo il reclamo del detenuto Francesco Ursino recluso al 41 bis, aveva disposto che quest’ultimo avesse diritto a due ore quotidiane di permanenza all’aria aperta e che l’ulteriore ora al giorno dedicata alle sale destinate alla “socialità” non dovesse essere scomputata dalle due. I giudici supremi, per l’ennesima volta, hanno ritenuto infondato il ricorso.

Il motivo? «Il collegio - scrivono i giudici - ritiene dare continuità all’indirizzo giurisprudenziale, che ha ritenuto che sono illegittime le disposizioni della circolare del Dap del 2 ottobre 2017 e dei regolamenti d’istituto che, con riferimento ai detenuti sottoposti a tale regime, limitano a una sola ora la possibilità di usufruire di spazi all’aria aperta, consentendo lo svolgimento della seconda ora, all’interno delle sale destinate alla socialità».

Per quale motivo è illegittimo? «Sia perché la permanenza all’aperto e la socialità - scrivono i giudici - devono essere tenute distinte, in quanto preordinate alle differenti finalità, rispettivamente, di tutelare la salute e di garantire il soddisfacimento delle esigenze culturali e relazionali di detenuti ed internati, sia perché la limitazione da due ad una delle ore di permanenza all’aperto non può essere stabilita, in difetto di esigenze di sicurezza inerenti alla custodia in carcere di per se stessa considerata, da atti amministrativi a valenza generale, ma deve conseguire all’adozione di un provvedimento specifico ed individualizzato della direzione dell’istituto, chiamata a render conto dei “motivi eccezionali” che giustificano la limitazione stessa».

Per spiegare meglio la questione delle ore di socialità, bisogna partire dalla legge del 2009 che limita a due le ore di “permanenza all’aperto”. La circolare del Dap del 2017 che uniforma le regole per tutti i reclusi del 41 bis, ha specificato che queste dure ore sono “da trascorrere all’aria aperta o svolgendo attività ricreative/ sportive, in appositi locali adibiti a biblioteca, palestra e sala hobby”. Ciò significa che secondo la circolare i detenuti dovrebbero decidere se spendere le due ore fuori dalla propria cella all’aperto oppure all’interno delle sale di socialità.

Tale interpretazione è stata però decisamente smentita dalle sentenze della Cassazione, le quali - confermando l’orientamento di diversi magistrati di sorveglianza – interpretano “la permanenza all’aperto” come la permanenza all’aria aperta, mentre lo svolgimento delle attività ricreative sarebbe da escludere dal computo delle due ore. Ma non ci sono solo casi riguardanti le ore d’aria. Puntualmente accade anche con il discorso del divieto dei saluti.

A gennaio del 2020, la Cassazione ha respinto il ricorso dell’amministrazione contro la decisione della magistratura di sorveglianza che accolse il reclamo proposto da Emanuele Argenti, sottoposto al regime del 41 bis del carcere aquilano, sul presupposto che il saluto rivolto ad altro detenuto non integrasse alcuna forma di comunicazione, implicando tale nozione uno scambio di dati, stati d’animo, sensazioni, non ravvisabile nel semplice saluto. Come se la Cassazione non si fosse mai pronunciata sul punto, nel 2021 è dovuta intervenire nuovamente sulla identica questione: ha respinto il ricorso del ministero della Giustizia nei confronti dell’ordinanza della magistratura di sorveglianza favorevole a Natale Dantese, recluso al 41 bis de L’Aquila e assistito dall’avvocato Vinicio Viol del foro di Roma. Parliamo sempre della sanzione disciplinare per lo scambio di saluti al 41 bis.

Per l’ennesima volta i giudici supremi hanno dovuto ribadire che «deve escludersi che si fosse in presenza di una “comunicazione” nel senso indicato, non essendovi stata alcuna trasmissione di informazioni da un individuo a un altro, ovvero un’interazione tra soggetti diversi nell’ambito della quale essi costruivano insieme una realtà e una verità condivisa». Pertanto, sempre secondo la Cassazione, «correttamente il Tribunale di sorveglianza ha rilevato come tale dichiarazione doveva considerarsi di natura neutra, non potendosi in essa cogliere alcuna particolare informazione e non avendo l’atto, in definitiva, un vero e proprio intento comunicativo».

Ma è accettabile, da parte dell’amministrazione penitenziaria, la continua opposizione alle ordinanze della magistratura? In realtà, come rivelato da Il Dubbio, ad ottobre del 2020 era stata emanata una importante circolare che aveva come oggetto i “reclami giurisdizionali” e comunicava l’orientamento assunto dai magistrati di sorveglianza a seguito dei rilevanti interventi della Corte costituzionale e della Cassazione sul 41 bis.

Nello specifico ha chiesto ai direttori delle carceri che ospitano i 41 bis, di conformare l’azione amministrativa ai princìpi e alle ordinanze di accoglimento dei reclami dei detenuti da parte della magistratura di sorveglianza in materia di cottura dei cibi, di eliminazione del divieto di scambio di oggetti tra detenuti appartenenti allo stesso gruppo di socialità, di eliminazione delle limitazioni alla permanenza all’aria aperta a una sola ora e di annullamento di sanzioni disciplinari inflitte per condotte consistenti in meri scambi di saluto tra detenuti come motivato da diverse sentenze della Cassazione.

La circolare era a firma dall’allora direttore generale Turrini Vita. Ma era stata clamorosamente revocata dopo appena due giorni dall’allora capo del Dap Bernardo Petralia e dal vice Roberto Tartaglia. Che senso ha opporsi ai princìpi costituzionali, già oggetto di sentenze delle corti superiori, quando in realtà l’amministrazione stessa è obbligata ad uniformarsi?