Non saprei dire con certezza se sono i giornalisti a guidare l'incanaglimento dei "social" o viceversa. Probabilmente è un circolo vizioso, un inseguirsi a vicenda. Con risultati pessimi. I risultati sono due. Il primo è lo scadere oltre ogni libello di oscenità della stessa lingua italiana, che dopo secoli di sviluppo rischia di tornare indietro e imbarbarirsi. Il secondo è l'obnubilamento che questo linguaggio di aggressione e di odio inevitabilmente porta con sè. Il pubblico obnubilamento del pensiero ha delle inevitabili conseguenze sul funzionamento della democrazia e quindi anche sul dispiegarsi della libertà. Di che sto parlando? Vediamo. Vi trascrivo un brano di un editoriale pubblicato proprio ieri su uno dei più importanti giornali italiani.

E' firmato da uno dei quattro o cinque giornalisti che in Italia contano. Non vi dico neppure il nome del giornale né del giornalista, perché non mi va di personalizzare. Se lo capite da soli bene, sennò non cambia niente, quello che conta non sono i nomi ma la sostanza. Leggete qui: «... Non faccio che pensare a loro. E naturalmente a Lui che, cattivissimo come solo i nani sanno essere, detesta tutte le sue creature e, pur di non vedere più quell’orda di parassiti forforosi, sudaticci, e alitosi, se ne sta asserragliato ad Arcore ( dove nessuno lo fotografa e può evitare di montarsi ogni mattina quella calotta catramata che lui chiama capelli) con qualche puntatina a Merano per darsi una sgonfiata ( dove ogni tanto si scorda il toupet sul comodino accanto alla dentiera...)».

L’articolo prosegue per molte e molte righe, sempre con questo tono. Come si capisce, si riferisce a Silvio Berlusconi, cioè il capo del centrodestra italiano più volte ex presidente del Consiglio e al suo gruppo parlamentare. L’estensore è un uomo forte dell’establishment di Beppe Grillo. Se però avete un po’ di pazienza potrete trovare molti esempi simili di giornalismo, riferiti magari, anziché a Berlusconi, a Renzi, oppure - molti – a Laura Boldrini, ma anche a tantissime altre persone famose.

Difficile trovare dei precedenti per questo linguaggio giornalistico. Qualche volta ho cercato un antenato in un certo Roberto Farinacci, che - poco meno di un secolo fa - fu un gerarca fascista molto esagitato, e per questa ragione, dopo qualche anno, emarginato dalla stesso Mussolini. Ci sono delle analogie e delle differenze tra il farinaccismo e questo nuovo giornalismo nostrano ( che non è solo di matrice grillina).

L’analogia sta nel sentimento che lo muove. E il sentimento che lo muove è quello che Leonardo Sciascia, con la sua solita arguzia, definiva “la collera degli imbecilli”. Diceva Sciascia che è esattamente la collera degli imbecilli il carburante di tutti i fenomeni fascisti.

La differenza sta invece nel carattere essenzialmente politico del farinaccismo ( che rispondeva a una esigenza aggressiva e sfacciata del fascismo, che in quegli anni era ancora molto giovane e aveva assolutamente bisogno di affermarsi e unirsi schiacciando i nemici), e nel carattere invece poco politico e molto populistico di questo nuovo giornalismo d’assalto, che – esattamente al contrario di Farinacci – ha bisogno assoluto di nemici per affermarsi. Il farinaccismo era funzionale a una politica e a una ricerca di stabilizzazione del potere. Il nuovo populismo, che nasce o comunque vive e si alimenta nei social, è semplicemente questo: la ricerca, l’esaltazione e la mostrificazione del nemico.

In questa catena, la mostrificazione è essenziale, e per questa ragione assurge a un ruolo decisivo l’odio, la formazione dell’odio, la coltivazione dell’odio e dunque il linguaggio dell’odio. L’odio serve a formare i mostri, i mostri sono i pilastri del nuovo populismo.

Nello sviluppo del linguaggio dell’odio ( che diventa ancora più importante dello stesso odio, e naturalmente molto, molto più importante della ragione dell’odio, che è assolutamente secondaria, se c’è resta sullo sfondo) ha una funzione decisiva l’interfacciarsi tra giornalismo e social. L’autore dell’articolo che abbiamo citato certamente usa un linguaggio in gran parte mutuato dai social. Che è diventato ormai il suo linguaggio. Avrete notato come dà una importanza decisiva agli aspetti fisici della persona che critica, e a quelle che ritiene le proprie superiorità fisiche rispetto al nemico, individuato e indicato al pubblico odio. Dunque lui che scrive è più alto del nemico, e quindi il nemico è un nano. Ha più capelli, più denti, più gioventù del nemico, e quindi la scarsità dei capelli, la necessità di portare una dentiera e l’età avanzata diventano colpe e motivi di insulto. La politica scompare. Il conflitto politico non esiste, non è neppure immaginato. Il conflitto è tra il bello e il brutto. Tra il giovane e il vecchio. Tra l’uomo robusto e l’uomo anziano con una dentatura debole. E anche le persone che circondano il nemico non sono colte o ignoranti, reazionarie o progressiste, liberali o totalitariste, violente o miti. No: sono sudaticce, hanno cattivo odore, molta forfora.

Ma non è solo il giornalista a mettersi alla coda del social. Succede anche il contrario. Il giornalista, che ha attinto al linguaggio del social diventa l’esempio per i fruitori del social, i quali lo eleggono a simbolo e iniziano a imitarlo. E vogliono superarlo, e allora incattiviscono ulteriormente il proprio linguaggio e - contemporaneamente – riducono sempre di più l’interesse per i contenuti. E quando incattiviscono le parole e abbassano il livello del pensiero, diventano a loro volta un modello per il giornalista. Si forma la spirale.

Il bersaglio dell’odio può essere chiunque. Ha pochissima importanza chi sia il bersaglio, perché ciò di cui si ha bisogno non è colpire un avversario per indebolirlo, ma costruire un avversario per colpirlo. Quindi si cerca l’avversario che abbia le caratteristiche migliori per essere colpito. Più un personaggio è considerato possibile catalizzatore di odio più viene prescelto dai social e dal giornalismo post- social. Ma non basta che abbia le caratteristiche giuste, cioè i punti deboli ( l’altezza fisica nel caso di Berlusconi, l’esser donna nel caso della Boldrini, eccetera...) è necessario che sia un personaggio con l’indice più alto possibile di visibilità. Perché questo indice di visibilità fa da moltiplicatore alla quantità di odio che si mette in movimento. Da questo punto di vista andava molto bene Obama e va molto bene anche Trump. Oltretutto Obama era nero e Trump ha una strana capigliatura, ottimi punti deboli.

Ma il massimo, dal punto di vista della visibilità, è il papa. Il capo dell’intera cristianità. Raramente un papa aveva concentrato su di se tanto odio, e tanto linguaggio dell’odio – da parte dei cristiani come è successo a Francesco. Eppure, in passato, molti papi solo stati al centro di scontri durissimi, in politica e non solo in politica. Quasi mai però un cattolico praticante aveva avuto l’ardire di sostenere che il papa ( che ha chiesto il diritto allo Ius soli) dovrà risponderne «davanti alla storia e davanti, addirittura, a Dio». Lo ha fatto l’altro giorno un famoso psichiatra.

E’ preoccupante, questo fenomeno, o è solo un fatto folcloristico e passeggero? Penso che non sia un fatto passeggero. E che dipenda da tre fattori stabili nell’attuale fase della modernità.

Uno di questi fattori - l’unico positivo - è lo sviluppo delle tecniche informatiche, cioè l’enorme diffondersi del web. Il secondo fattore è la coincidenza temporale - e probabilmente casuale – almeno qui in Italia, tra questo sviluppo e la caduta dell’intellettualità, della sua robustezza, della sua autorevolezza, della sua funzione nella società e nell’establishment. Per capirci: avevamo Pasolini, Calvino, Calogero, Argan, Calamandrei, Lombardo Radice, e oggi – se tutto va bene e senza sottovalutare i miei colleghi – abbiamo Gramellini, Saviano, Scanzi. Non solo non c’è una intellettualità in grado di costituire un punto di riferimento esterno ai social, e magari di indirizzarli e funzionare come esempio; ma abbiamo una intellettualità “debole”, subalterna organicamente ai social, e da essi stregata.

Il terzo fattore è la caduta della politica, che non è più in grado di costruire programmi, speranze, conflitti, e sostituisce tutto questo con la rappresentazione di conflitti che, inevitabilmente, si nutre dell’odio.

Come si può intervenire? Come si può frenare la tendenza a trasformare l’odio - l’odio senza contenuti e senza conflitto – in pilastro del dibattito pubblico e in costruttore del linguaggio? Con delle leggi? Con delle contromisure culturali? Con la scuola?

Lascio aperte queste domande. Perché non so rispondere. Mi aspetto delle risposte dal G7 delle avvocature, che si terrà a settembre proprio su questi argomenti, e del quale riferiamo qui accanto.

NON CONTA PIÙ NIENTE IL PERCHÉ SI ODIA. CONTA ODIARE.

E ANCOR DI PIÙ CONTA IL LINGUAGGIO CON IL QUALE SI ODIA. SEMPRE PIÙ ASPRO, SEMPRE PIÙ VOLGARE