L’articolo 98 della Costituzione sancisce che i pubblici dipendenti sono all’esclusivo servizio della Nazione. Quanto stabilito dalla Corte di Cassazione nei giorni scorsi (ord. n. 31776 del 15/ 11/ 2023) è proprio questo: il pubblico dipendente non può essere a “mezzo” servizio della Nazione.

Nel principio di diritto con cui ha cassato la decisione della Corte d’Appello di Milano, la Suprema Corte non ha fatto altro che confermare un orientamento costituzionalmente orientato e normativamente ineccepibile: la disciplina delle incompatibilità in tema di ordinamento professionale forense deve essere interpretata con estremo rigore, in coerenza con la ratio di garantire l’autonomo e indipendente svolgimento del mandato professionale nel superiore interesse pubblico.

Siffatto principio non può essere compresso né da leggi finanziarie/ di stabilità (part time, incarichi amministrativi agli avvocati pubblici, assunzione di avvocati per attuazione Pnrr o ufficio del processo, eccetera), né fonti di rango secondario o subordinato (regolamenti di enti, contratti collettivi e/ o di lavoro). La legge forense - che è di per sé legge speciale e non ordinaria (i. e. modificabile solo con legge specifica) - è stata ritenuta dalla Consulta legge finanche “straordinaria” perché deputata a regolare la difesa di diritti inviolabili dell’uomo.

La questione dell’esercizio delle professioni intellettuali del dipendente pubblico in regime di part time è un tema risalente. Fu la legge n. 662/ 1996 ( finanziaria 1997) a rimuovere l’incompatibilità fra dipendenti pubblici in part time e professioni intellettuali, senza curarsi delle norme costituzionali: il pubblico dipendente è al servizio “esclusivo” della Nazione ( art. 98 Cost.) e ha doveri di imparzialità e terzietà ( art. 97). Quanto alla professione forense il legislatore del 1996 ha del tutto trascurato che la legge forense dispone l’incompatibilità assoluta con qualsiasi impiego retribuito (art. 3 Rd 1578/ 1933) indipendentemente dalla durata oraria (full time o part time), con unica eccezione per gli avvocati dipendenti pubblici, solo se assegnati in via esclusiva e stabile ad un Ufficio legale autonomo e indipendente da qualunque altra struttura dell’Ente.

Dal canto suo l’attività del pubblico dipendente è caratterizzata, nonostante la progressiva equiparazione del rapporto a quello dell’impiego privato, da una serie di obblighi e facoltà che identificano uno status particolare di lavoratore subordinato, qualificato da uno stringente obbligo di fedeltà alla pubblica amministrazione presso la quale il soggetto è incardinato. Il rapporto di servizio si fonda, pertanto, ' sul dovere d’ufficio di perseguire e proteggere l’interesse pubblico primario affidato alla cura dell’amministrazione stessa, in base al principio di legalità dell’azione amministrativa', sicché, in tale contesto, gravano, sul pubblico dipendente, peculiari obblighi in virtù dei principi di imparzialità e di buon andamento della pubblica amministrazione, come pure l’obbligo esclusivo di fedeltà alla Nazione menzionato. Con la L. n. 339 del 2003, art. 1, fermi i limiti di cui al R. d. n. 1578 del 1933, si era reintrodotto il principio di incompatibilità assoluta tra professione di avvocato e status di pubblico dipendente ( art. 3, c. 2, R. d. cit.).

La Corte di Cassazione del 15 novembre scorso, in un solco oramai tracciato e definito con forza dalla Corte Costituzionale, ha rammentato che i timori di contrasto con il regime di incompatibilità che la professione di difesa dei diritti costituzionali non negoziabili tutela, sono fondati, e dunque non occorre alcuna puntuale allegazione e prova della “derivazione” causale di uno specifico “disservizio, danno o pericolo” connesso alla violazione dell’obbligo di comportamento da parte del dipendente, perché tale rischio è immanente nell’opzione legislativa di aver valutato pericolosa la “commistione” che riguardi la professione forense (così Corte Cost. n. 390/ 2006).