Da guardasigilli fortemente voluto da Giorgia Meloni nel suo governo, nonostante le resistenze sorprendentemente opposte nella maggioranza da Silvio Berlusconi, e forse anche per questo nominato molto volentieri dal capo dello Stato, Carlo Nordio è stato appena declassato giornalisticamente da Marco Travaglio sul Fatto Quotidiano a “cosiddetto ministro della Giustizia”. E ciò per avere “lanciato” in Parlamento “nuovi anatemi a grappolo contro il mestiere che faceva (così almeno pare) fino all’altro ieri: il magistrato”.

Ci sono più semplicemente, come possono testimoniare tutte le toghe, anche quelle che sono più ammirate e sostenute da Travaglio, ma che non per questo vanno definite “rosse”, per carità, vari modi di fare il magistrato. Diciamo che quello di Nordio non ha riscosso il plauso del direttore del Fatto Quotidiano. Tutto qui, senza scomodare la professione o la funzione in sé, ed altro ancora.

Nordio, per esempio, ha una concezione del ricorso e soprattutto della gestione delle intercettazioni diversa da quella praticata da altri magistrati, di cui magari qualche giornale conserverà un eccellente ricordo per il vantaggio diffusionale e politico ricavato dalle sue cronache. Egli ha del principio costituzionale della obbligatorietà dell’azione penale una concezione, visione, chiamatela come volete, diversa da colleghi, anzi ex colleghi, essendo lui ormai in pensione da cinque anni: meno sacrale, meno ipocrita, più realistica - anche qui, come volete- di tanti magistrati che predicano bene e razzolano male, a volte ma di rado incorrendo anche in qualche richiamo o censura. E’ infine, sempre Nordio, uno che anche quando era magistrato in servizio non riteneva - al pari di colleghi come il compianto Giovanni Falcone- che la rinuncia alla carriera unica di pubblico ministero e giudice comportasse anche una rinuncia o solo una riduzione dell’autonomia, indipendenza eccetera eccetera. E lo scrivo anche perché ritengo manzonianamente che l’autonomia, come il coraggio, è una cosa che si ha dentro o non si ha.

Potrei continuare di questo verso ancora per molto, magari mettendo a profitto anche qualche esperienza personale di giornalista imputato, sottoposto a cosiddetta custodia cautelare ma alla fine prosciolto con formula piena, o di imputato costretto a un patteggiamento per avere osato addentrarsi in uno dei tanti, ma forse il più tenebroso dei misteri del sequestro e dell’assassinio di Aldo Moro coperti anche con qualche manina giudiziaria. Ma andrei troppo sul personale, appunto.

Mi preme qui lamentare il troppo scetticismo, secondo me, levatosi attorno al programma sommariamente esposto, o ribadito, da Nordio. Che il mio carissimo amico Piero Sansonetti, per esempio, già direttore del Dubbio, ha espresso contrapponendo in qualche modo lo stesso Nordio alla presidente del Consiglio che - chissà perché, a questo punto- avrebbe fatto tanto per mandarlo in via Arenula. “E’ tornato il vero Nordio! ( Speriamo che la Meloni non se ne accorga)”, ha scritto e titolato Piero sul Riformista.

Non parlo poi, cioè non scrivo più di tanto di chi non è solo scettico sulla praticabilità del programma di Nordio ma contrario, preferendo paragonare, per esempio, il ministro finalmente in carica della Giustizia a Nerone piuttosto che a Giustiniano, come ha fatto su Repubblica Carlo Bonini pur riconoscendo che i magistrati almeno dai tempi di “Mani pulite” hanno preso anche qualche brutta abitudine, e non solo compiuto con dolorosa severità il loro compito.

Ciò che mi induce a pensare che Nordio abbia ormai tracciato una strada non più liquidabile come irrealistica, su una terra ancora troppo affollata di serpenti, è la condizione politica e persino istituzionale nella quale egli si trova a muoversi. Siamo per fortuna ormai troppo lontani dall’epoca in cui al Quirinale sedeva un ex magistrato, peraltro, come Oscar Luigi Scalfaro. Che volle, o comunque ritenne di potersi impegnare col sindacato delle toghe, senza minimamente sospettare di potere sbagliare, a non firmare mai, per la promulgazione, una legge passata in Parlamento per separare davvero le carriere dei pubblici ministeri e dei giudici. O che nella gestione della prima crisi di governo capitatagli al Quirinale estese di fatto la pratica delle consultazioni al capo di una Procura della Repubblica. E non scrivo di più, pace alle anime loro.

Da allora, e prima ancora che arrivasse il “regnante” Sergio Mattarella, è passato per il Quirinale anche un presidente come Giorgio Napolitano, che non esitò a difendere einaudianamente le prerogative del capo dello Stato investendo la Corte Costituzionale dell’operato della Procura della Repubblica di Palermo. L’unica, purtroppo, a non accorgersi di nulla - anche nel contesto del congresso del Pd in cantiere al Nazareno - è una certa sinistra che ha passato anche il testimone del garantismo, se mai l’ha avuto, alla destra. E ora vaga alla ricerca di un’identità perduta.