“Comunicare il processo penale. Interessi costituzionali in precario equilibrio” è il titolo di un incontro organizzato alla Sapienza di Roma (Aula Calasso – facoltà di Giurisprudenza) per domani alle ore 15.30. Interverranno Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione Camere penali, Luigi Ferrarella, firma del Corriere della Sera, Giovanni Melillo, procuratore nazionale Antimafia. Oltre a docenti universitari, sono stati invitati a intervenire magistrati, avvocati e giornalisti. «L’evento – ci spiega il moderatore e organizzatore Glauco Giostra, ordinario di Diritto processuale penale – vuole mettere a proficuo confronto, su una tematica che esonda dai confini della giustizia in senso stretto per raggiungere quelli che connotano la civiltà di un popolo, personalità di vertice della magistratura inquirente, dell’avvocatura e del giornalismo giudiziario».

Professore perché quel sottotitolo “pessimista”?

L'informazione sulla giustizia penale risponde a un interesse costituzionalmente irrinunciabile, dovendo la collettività conoscere e controllare come giudici indipendenti da ogni altro potere amministrano la giustizia in suo nome. Ma dalle modalità, dai limiti e dai tempi della rappresentazione mediatica dipende anche la tutela di interessi di pari rango: l'accertamento delle responsabilità penali, la presunzione di non colpevolezza, la reputazione, la dignità e la riservatezza dei soggetti coinvolti, il giusto processo. Bisogna cercare di individuare un punto di equilibrio tra esigenze confliggenti. Operazione delicatissima, perché si tratta di garantire la cronaca giudiziaria e di garantirsi dalla cronaca giudiziaria che, per le sue modalità, offende senza necessità quei valori concorrenti.

Il legislatore si è mosso negli ultimi tempi: lei ritiene che i passi siano stati quelli giusti?

Il legislatore ha, di recente, mostrato sensibilità per il problema, delicatissimo e fondamentale in una democrazia. Si pensi alla riforma concernente il regime di divulgabilità dei risultati delle intercettazioni ( d. lgs 216 del 2017) volta a escludere la pubblicabilità di notizie processualmente non rilevanti impigliate nella rete a strascico di questo efficace, ma insidioso mezzo di ricerca della prova. Si pensi, più di recente, al d. lgs 188 del 2021 sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza, perseguito soltanto formalizzando an e quomodo della comunicazione ai media da parte delle autorità pubbliche. In entrambi i casi, condivisibili ed apprezzabilissimi gli intendimenti; in entrambi i casi, tecnicamente approssimative e contenutisticamente inadeguate le soluzioni. Anche se questo giudizio, largamente condiviso, viene in genere articolato diversamente a seconda della sensibilità culturale e professionale dei protagonisti del rapporto tra giustizia penale e stampa.

Quali sono le criticità?

Di certo, l’attuale assetto normativo lascia sostanzialmente irrisolti aspetti nevralgici di questo importante rapporto. Solo per offrire qualche esempio: rimane controverso il diritto del giornalista di ottenere informazioni in ordine ad atti di indagine non più segreti; viene affidato all’autorità giudiziaria il compito di stabilire quando ricorre un interesse pubblico alla conoscenza della notizia, compito che dovrebbe costituire, invece, diritto e responsabilità del giornalista; è sostanzialmente priva di rimedio la pubblicazione di notizie ( non provenienti da autorità pubbliche) che indicano come colpevole l’indagato o l’imputato; resta inopportunamente risibile la sanzione per la pubblicazione di atti coperti dal segreto; permane largamente tollerata la barbarie civile della celebrazione dei processi in tv.

Non sarebbe stato in generale meglio se a governare certi fenomeni non ci fossero state nuove norme ma la responsabilità collettiva di tutti gli attori in gioco ( magistrati, avvocati, giornalisti)?

Dipende. L’idea di affidarsi al senso di responsabilità dei diversi protagonisti è stata già perseguita stilando ineccepibili codici deontologici, ma non mi sembra che i risultati siano entusiasmanti; anche perché in nessun settore l’autodichìa ha mai dato frutti soddisfacenti. D’accordo, invece, sul fatto, che il condivisibilissimo obiettivo ispiratore del decreto sulla presunzione di innocenza sarebbe stato se non più facilmente conseguito, di certo più credibilmente perseguito qualora, invece di perdersi in distinguo riguardanti le fonti e l’oggetto della comunicazione, si fosse optato per un approccio a più ampio spettro. Ad esempio: agli operatori dell’informazione si sarebbero dovuti riconoscere maggiori diritti e maggiori responsabilità; invece di perdersi in analitici e settoriali rivoli prescrizionali, si sarebbe potuto prevedere l’illiceità di qualsiasi forma di comunicazione pubblica che rappresenti implicitamente o esplicitamente l’accusato come colpevole, senza cioè che il cittadino possa capire con la normale diligenza che si ha invece a che fare con una ipotesi di responsabilità; si sarebbe potuta istituire una Autorità indipendente in grado di infliggere sanzioni “reputazionali” a chiunque - con la propria, scorretta condotta- abbia ingiustamente compromesso la reputazione altrui.

Lei in un altro convegno ha detto una frase che mi ha colpito: “Avete fatto caso che ‘ giustizia è fatta’ è esclamazione riservata soltanto alle sentenze di condanna?”. Il problema quindi prima di essere normativo è culturale, educativo?

Certamente. Di fronte ad una condotta criminale, l’inconfessata speranza di condanna è dovuta all’ansia di placare le nostre paure, più che di soddisfare il nostro bisogno di giustizia. Quando “nella tv del dolore” si va morbosamente a frugare nella disperazione delle vittime alla ricerca di qualche dichiarazione, la risposta più frequente e scontata è “vogliamo giustizia”, ma in realtà si vuole, comprensibilmente, soltanto un colpevole, e subito. L’individuazione di un responsabile appaga nell’opinione pubblica l’inquietudine suscitata dal fatto criminale: ed è un sollievo che difficilmente si lascia turbare dalla prospettazione del dubbio.