Può darsi che si realizzi una chance finora disattesa: il sostegno ai professionisti concepito insieme con i rappresentanti del mondo ordinistico, e delle altre categorie, anziché in una logica a metà fra il paternalistico e l’estemporaneo. Può darsi: è presto, abbiamo un governo che muove ora i primi passi e che ha dinanzi a sé una tale mole di emergenze, una così impressionante sequenza di sfide e di allarmi a cui fare fronte, che le politiche di settore rischiano di perdersi. Un po’ come è avvenuto durante il covid, quando, ad esempio, alle libere professioni furono destinati nient’altro che i brandelli dei “bonus” previsti per tutti gli autonomi, pure con esclusioni scandalose (ricordate il finanziamento a fondo perduto?). Ecco, stavolta sembra che lo spirito sia cambiato, che si siano create condizioni diverse, e lo si deve ad almeno due o tre circostanze favorevoli. La prima è che l’attuale coalizione di governo si gioca la faccia, per dirla tutta, sulle promesse, gli impegni e diciamo pure i proclami lanciati per anni. Loro, i partiti dell’attuale maggioranza, si sono sempre presentati come i soli in grado di comprendere le esigenze delle professioni, e degli autonomi nella loro vastissima accezione. Hanno sempre sostenuto che anzi fra centrodestra e professionisti esiste quasi una consustanzialità ontologica. E non è irrilevante che a rivendicare una così diretta rappresentanza sia stato, negli ultimi anni, proprio il partito di Giorgia Meloni. Nella scorsa legislatura Fratelli d’Italia ha messo su una vera e propria centrale d’ascolto sulle professioni, ora nelle mani della responsabile di settore Marta Schifone, ha raccolto richieste e gridi di dolore. E, aspetto né casuale né trascurabile, si è fatta carico della legge sull’equo compenso, che ha avuto, come prima firmataria, proprio l’attuale presidente del Consiglio. Di certo, la maggioranza di centrodestra sarà sempre particolarmente motivata nel distinguere se stessa da quel centrosinistra autore del peccato originale: l’abolizione delle tariffe, sancita da Bersani con le lenzuolate del 2007.C’è una seconda circostanza favorevole. A guidare ora il ministero del Lavoro e delle Politiche sociali è una donna, Marina Calderone, che, fino a un attimo prima del giuramento, è stata una figura centrale nel sistema di rappresentanza dei professionisti: per insediarsi a via Veneto, la ministra ha dovuto dismettere la carica di presidente del Cup, il Comitato unitario delle professioni, che è stato pur sempre crocevia e terminale di tantissime (e spesso vane) interlocuzioni con la politica. Inoltre, com’è noto, Calderone è stata, fino a un attimo prima di entrare nel governo, presidente del Consiglio nazionale dei Consulenti del lavoro: una competenza che non solo gli è tornata utile rispetto all’ingresso nell’esecutivo, ma che le assicura una conoscenza concreta delle aspettative coltivate dal singolo professionista. Insomma il nuovo governo dovrebbe essere in grado di affrancarsi da quella che potremmo definire la teoria del notabilato professionale, cioè da quell’idea semiottocentesca secondo cui la libera professione costituisce un mondo comunque privilegiato, autosufficiente, come i “notabili” dell’Italia di un secolo fa, un mondo che non dovrebbe certo essere destinatario delle politiche di welfare. Ecco, e qui intervengono alcuni primi segnali incoraggianti. Sia nel senso dell’attenzione generale ed empatica al mondo dei professionisti, sia nella capacità di guardare a quelle soluzioni che lo stesso lavoro intellettuale propone. Lunedì e martedì della scorsa settimana, innanzitutto, Calderone ha riunito il cosiddetto “Tavolo del lavoro autonomo”: un confronto aperto, naturalmente, non solo alle categorie ordinstiche ma all’intero mondo delle partite Iva. E la parola welfare ha cominciato a risuonare con eco meno utopistica rispetto al passato. Calderone ha assicurato di volersi dare tempo non oltre fine dicembre per tradurre le sollecitazioni emerse da questo primo confronto in una piattaforma di interventi a sostegno delle professioni, innanzitutto su «welfare» e «previdenza». Non sarà facile, considerati i tempi e le altre urgenze, che di quella piattaforma confluisca qualcosa nella Manovra, già delineata dall’esecutivo di Meloni. Ma volersi dare un “programma” sugli autonomi e sui professionisti è già un passo avanti in termini di metodo. Inoltre, considerato che al tavolo aperto in via Veneto partecipano rappresentanze di varia natura, non solo istituzionali, Calderone ha tenuto a garantire un canale di dialogo particolare per le istituzioni dell’avvocatura e dei commercialisti. Si è riunita cioè in una cornice distinta con la presidente del Cnf Maria Masi e il vertice del Consiglio nazionale dei commercialisti Elbano de Nuccio. Ecco, tra le priorità, la ministra ha individuato il progetto per le pari opportunità, sia di genere che intergenerazionali, da tempo messo a punto dal Cnf, e che era stato sottoposto già all’ex ministro del Lavoro Andrea Orlando. Da quel disegno dell’avvocatura, Calderone intende trarre ispirazione per un piano di riequilibrio, per una politica delle pari opportunità nel lavoro autonomo, che dal mondo forense possa estendersi a tutte le altre categorie. Un altro esempio di sostegno concepito non “per” ma “con” le libere professioni: la riforma dell’equo compenso. Già nel “trilaterale” con Masi e de Nuccio, lo scorso 14 novembre Calderone ha anticipato le intenzioni del governo rispetto alla legge sulle retribuzioni nel lavoro intellettuale: approfittare del testo messo a punto nella scorsa legislatura e votato a larga maggioranza alla Camera, quindi promosso in modo unanime in commissione al Senato ma poi arrestatosi dinanzi alla fine anticipata della legislatura, che ha incredibilmente impedito l’ultimo, semplicissimo passaggio fotocopia nell’aula di Palazzo Madama. Recuperare integralmente, e senza modifiche, quell’articolato vorrebbe dire venire incontro alle richieste di gran parte delle rappresentanze, innanzitutto istituzionali, delle categorie ordinistiche, e in particolare dell’avvocatura. Anche nell’incontro di una settimana fa con Calderone e de Nuccio, Masi ha ribadito ancora una volta che, per il Cnf, quel testo sull’equo compenso, pur con i suoi limiti, merita di entrare in Gazzetta ufficiale, e che pensare di rimaneggiarlo potrebbe voler dire infilare di nuovo la riforma nelle sabbie mobili. Calderone ha condiviso e approvato il discorso, anche perché così si otterrebbe davvero un passaggio rapidissimo fra Camera e Senato. E lo ha condiviso Francesco Paolo Sisto, viceministro della Giustizia che venerdì scorso è intervenuto al plenum del Cnf, e che è stato, negli ultimi giorni della vecchia legislatura, l’esponente del governo più ostinato nel cercare di impedire il paradossale naufragio della legge. Ancora un altro segnale: i correttivi necessari per scongiurare le ormai esiziali interpretazioni sbarazzine delle pubbliche amministrazioni sulla natura giuridica degli Ordini, spesso trattati dai burocrati come se fossero grandi enti locali. È vero che sul punto è arrivata una provvidenziale recente pronuncia del Tar Lazio, che ha censurato l’applicazione, per gli Ordini, dell’integrale disciplina relativa alle Pa. Ma anche in questo caso, nella sua visita al Cnf, Sisto ha preso un impegno a intervenire in modo che non debba essere il giudice di turno a salvare le istituzioni forensi e non solo dalla burocrazia.Va ribadito: è presto per esultare. Ma c’è uno spirito diverso. Forse dettato dall’umiltà di una compagine governativa poco “accademica”, certamente favorito dalla presenza di Calderone. Se si volesse solo mettere su carta le proposte avanzate negli ultimi quindici anni dalle professioni, ci sarebbe un vero e proprio Testo unico da scrivere. Chissà che non sia la volta buona.