«Per me c’era in atto una manovra per calunniare e screditare Sebastiano Ardita e colpirlo nella sua funzione di consigliere del Csm». Il magistrato Nino Di Matteo non ha dubbi: la diffusione dei verbali di Piero Amara, ex avvocato esterno di Eni, autore delle dichiarazioni sulla presunta Loggia Ungheria, era finalizzata a colpire il suo collega e amico, tirato falsamente in ballo come membro dell’associazione segreta.

Processo a Davigo, Di Matteo in aula: «In atto una manovra per calunniare e screditare Ardita»

Un’opera di delegittimazione che il pm della trattativa Stato-mafia ha denunciato in plenum al Csm, svelando di aver ricevuto in un plico anonimo i verbali segreti di Amara, consegnati dal pm milanese Paolo Storari a Piercamillo Davigo come forma di autotutela, data la presunta inerzia della procura di Milano a procedere con le indagini. Parole che Di Matteo ha confermato oggi a Brescia, dove è in corso il processo all’ex pm di Mani Pulite, accusato di rivelazione di segreto d’ufficio per aver fatto vedere quei verbali a diversi consiglieri del Csm, alle sue segretarie e al presidente della Commissione Antimafia Nicola Morra. Di Matteo ha descritto il clima surreale respirato al Csm nei mesi che precedettero la consegna di quei verbali, finiti nelle mani di Davigo, secondo il suo racconto, ad aprile 2020. Ma già a marzo, nel corso di una riunione «choccante» del gruppo Autonomia & Indipendenza, fondato proprio da Ardita e Davigo, l’ex pm milanese aveva palesato tutto la sua insofferenza nei confronti del collega, in occasione della discussione sulla nomina del procuratore di Roma. Mentre Davigo, infatti, sosteneva la candidatura di Michele Prestipino, Ardita e Di Matteo erano orientati sul nome dell’ex procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo. Dichiarazione di intenti che provocò una reazione violenta da parte di Davigo. «Con una veemenza inaudita e grida che si potevano sentire nella stanza accanto o nel salottino adiacente - ha spiegato Di Matteo -, disse ad Ardita: “Se tu non voti Prestipino, sei fuori da tutto” e ancora “Se tu non voti Prestipino sei con quelli dell’Hotel Champagne”». Ma Ardita, ha spiegato il pm palermitano, «era indicato come un “talebano” nelle intercettazioni delle indagini su Luca Palamara», dunque lontanissimo da quelle logiche. La reazione di Davigo lasciò basito Ardita, che chiese spiegazioni all’ex amico. Ma a quel punto, ha affermato ancora Di Matteo, «Davigo con un fare molto aggressivo replicò dicendo: “Tu mi nascondi qualcosa” e quando Ardita lo invitò a spiegare le ragioni del contrasto davanti a tutti, lui disse “Te lo spiego dopo separatamente”. A quel punto anche io alzai la voce e dissi che quel gruppo era peggio degli altri, perché non si consentiva ai consiglieri di votare secondo coscienza i propri candidati. Reagii in maniera istintiva e dissi a Davigo: “Non mi sono fatto condizionare dalle minacce di morte di Totò Riina, figuriamoci se mi faccio condizionare dalle tue minacce"».

Caso Verbali, la denuncia Di Matteo in plenum

Quando nel marzo 2021 Di Matteo ricevette il plico anonimo con i verbali, decise di far scoppiare il bubbone prima consegnando il tutto alla procura di Perugia e poi parlandone pubblicamente nel corso di un plenum. «Quando rividi Ardita al Csm gliene parlai - ha aggiunto - . Gli dissi: “Ti avverto perché ti vogliono colpire, ci vogliono dividere e ci vogliono fottere sia a te che a me”». Anche perché le accuse nei confronti di Ardita «mi sembravano calunniose e risibili, individuabili da tutti quelli che conoscevano la sua storia. Mi convinsi subito che ci fosse in atto una manovra per colpirlo nella sua funzione di componente del Csm», ha aggiunto. Poco prima di parlarne al plenum, Di Matteo informò il vicepresidente David Ermini della sua decisione, scoprendo che la vicenda gli era già nota. «Ermini fu molto corretto e mi disse che potevo dire quello che volevo», ha spiegato. Ma il procuratore generale della Cassazione, Giovanni Salvi, era di parere contrario. «Poco prima del plenum mi invitò a non fare questo intervento perché aveva già preso contatti con la procura di Milano» per dare un impulso alle indagini sulle rivelazioni di Amara. «Salvi mi disse: “Allora posso contare sul fatto che non lo fai” - ha detto Di Matteo -. E io risposi: “No, io lo faccio”. Mezzo Csm lo sapeva, lo sapevano anche i giornalisti. Io non mi sono pentito di aver fatto scoppiare il bubbone», ha concluso Di Matteo. Ma se Davigo ha sempre sostenuto che il segreto non è opponibile ai consiglieri del Csm, giustificando così la sua decisione di informare i colleghi, è più difficile giustificare la scelta di informare anche Morra, esterno al Csm e all’ordine della magistratura. L’ex presidente dell’Antimafia, in aula, ha confermato di aver visto i verbali al Csm, dove si era recato sperando di poter ricucire lo strappo tra Davigo e Ardita. «Due fatti mi colpirono - ha detto in aula Morra -. Chiedendo a Davigo se c’era la possibilità di una conciliazione con Ardita, lui prese un faldone, coperto da fogli protocollo a righe, e mi invitò a seguirlo fuori dal suo ufficio, nelle scale. Aprendo questo faldone mi fece leggere il cognome Ardita» e mi disse che «c’erano dichiarazioni in base alle quali un dichiarante che stava collaborando con una procura del Nord affermava che Ardita facesse parte di un’associazione che aveva il vincolo della segretezza e per questo motivo non era più un soggetto affidabile. Ricordo di aver avuto quasi una sorta di colpo allo stomaco, ero emotivamente segnato, perché riponevo tanta fiducia in Ardita. Davigo non fece riferimento che fossero coperte da segreto». Ma l’ex pm invitò Morra ad essere prudente, pur senza interrompere i rapporti con il magistrato, per evitare «errori», dal momento che - ma non si sa se Davigo ne fosse a conoscenza - «era caldeggiato un incarico per Ardita nella Commissione Antimafia». Incarico che saltò proprio a causa delle parole di Davigo. «Sono stato cauto e questa ipotesi non è diventata realtà», ha concluso Morra. In aula anche altri consiglieri del Csm, che hanno confermato di aver saputo dei verbali e della presunta affiliazione di Ardita da Davigo. Verbali che, secondo la presunta postina Marcella Contrafatto, ex segretaria del pm milanese e accusata di aver spedito quelle carte a Di Matteo e a diversi giornalisti, gli sarebbero costati la permanenza al Csm. Una decisione, quella di “buttarlo fuori”, non condivisa dal laico Fulvio Gigliotti. «Inizialmente il comitato di presidenza pareva orientato per la permanenza del consigliere Davigo e mano a mano che ci si avvicinava la data della sua pensione, l’orientamento è cambiato - ha chiarito Gigliotti -. Io ho sentito anche l’esigenza di spiegare sui giornali il perché votavo a favore del consigliere Davigo, ovviamente su base tecnica giuridica perché all’interno del Csm ho sempre agito su basi giuridiche. E proprio sul piano tecnico ritenevo che dovesse completare la consiliatura». Gigliotti non ha escluso che dietro al cambio di orientamento del Csm potessero esserci anche influenze esterne. «Le politiche consiliari sono complicate da leggere - ha concluso Gigliotti - e spesso non orientate solo in base a situazioni interne, ma anche da situazioni esterne». Sui verbali, ha aggiunto, «mi raccomandò la massima riservatezza e mi disse che in quanto componente del Csm non poteva essere opposto il segreto al consiglio». I due erano d’accordo sulla necessità di approfondire la questione, ma Gigliotti non diede troppo credito ad Amara. «Se avessi immaginato che fossero vere avrei mantenuto distanze con Mancinetti (Marco, altro consigliere del Csm indicato come affiliato alla loggia, ndr) e Ardita che non ho mantenuto». Davigo temeva inoltre che anche per il caso Amara potessero esserci delle fughe di notizie. «La sensazione - ha detto Gigliotti - era che non ci fosse impermeabilità». Il consigliere Giuseppe Cascini ha invece spiegato che Davigo gli parlò dei verbali per verificare l’attendibilità di Amara, di cui il magistrato si era occupato in un’indagine a Roma. «Erano dichiarazioni esplosive ed è mia convinzione che fosse preciso dovere della procura di Milano fare un’indagine per capire se fossero vere, visto che erano coinvolte personalità delle principali istituzioni del Paese. Che invece ci fosse una situazione di stallo da parte della procura di Milano, che dopo qualche audizione non aveva fatto alcuna iscrizione, era motivo di preoccupazione», ha aggiunto, chiarendo che il coinvolgimento di due consiglieri del Csm lo aveva indotto a pensare «che ci sarebbe stato uno tsunami come quello del 2019» per le vicende legate al caso Palamara. Le dichiarazioni di Amara non apparvero a Cascini totalmente credibili: «La mia sensazione era che ci fosse un “mischio” di cose vere e cose false». Ma la mossa di Storari, secondo il consigliere togato, sarebbe stata una semplice richiesta di consigli ad un collega. Sarebbe stato poi compito della procura di Milano trasmettere gli atti al Csm. «La situazione di stallo era un elemento di preoccupazione», ha aggiunto. Davigo parlò dei verbali anche con il laico Stefano Cavanna, al quale riferì di una presunta loggia massonica di cui avrebbero fatto parte anche Ardita e Mancinetti. «Mi disse che era una cosa molto riservata e mi impose il silenzio, consegna che io rispettai alla lettera. Non ha fatto riferimento al segreto, da avvocato so che un’informazione su un’indagine è riservata - ha spiegato in aula -. Non ho mai visto i verbali, non sapevo neanche che esistessero. lo non chiesi di più. Non ritenni opportuno indagare oltre. Del fatto che fossero verbali secretati - ha concluso - non se ne parlò».