«È difficile svestire la toga quando si è dall’altra parte, la inviterei a calarsi nella parte dell’imputato». L’urgenza di Piercamillo Davigo di raccontare la sua verità è tanta che a un certo punto il presidente del collegio che lo dovrà giudicare, Roberto Spanò, è costretto a fermarlo. Ma a passare per quello che voleva fare dossieraggio ai danni del suo ex amico Sebastiano Ardita, con il quale ha fondato la corrente Autonomia e Indipendenza, l'ex pm di Mani Pulite non ci sta. Convinto, com’è, di aver fatto il suo «dovere nelle uniche forme in cui era possibile farlo». Così questa mattina, alla prima udienza del processo che lo vede imputato a Brescia per rivelazione di segreto d’ufficio per la diffusione dei verbali dell’ex avvocato esterno di Eni Piero Amara, Davigo ha deciso di prendere la parola. E di ribadire la propria innocenza, sostenendo di non voler sollevare l’eccezione di competenza territoriale di Brescia (che pure implicitamente contesta), perché «non si deve scappare dal giudice quando si è innocenti». Il magistrato ormai in pensione, dunque, ha fretta di parlare, di spiegare le proprie ragioni. Di dire che se ha scelto il rito ordinario, e non l’abbreviato, è per raccontare come sono andate le cose, anche perché altrimenti «poi mi dicono che lo faccio per denigrare Ardita, ma semmai è Amara che lo denigra. La questione sarebbe stata più chiara rappresentando al tribunale l’intera vicenda, perché è molto più semplice di quello che sembra». Tutto ruota, come noto, attorno ai verbali sulla testimonianza di Amara consegnati dal pm milanese Paolo Storari a Davigo, all’epoca consigliere del Csm, come forma di «autotutela» per il presunto lassismo della procura di Milano nell’iscrizione dei primi indagati in relazione alla presunta loggia Ungheria, della cui esistenza aveva riferito proprio il consulente dell'Eni, inserendo tra i presunti affiliati anche un consigliere del Csm: Ardita. Verbali che Davigo prese in consegna promettendo di farsi da tramite con il comitato di presidenza, salvo poi parlarne non solo con il vicepresidente del Csm David Ermini, con il procuratore generale Giovanni Salvi e con il primo presidente della Cassazione Pietro Curzio, ma anche con diversi altri consiglieri, con le sue segretarie e con il presidente della commissione parlamentare Antimafia Nicola Morra, consigliando loro di prendere le distanze proprio da Ardita, costituitosi parte civile nel procedimento. Il processo, dunque, rappresenta una resa dei conti tra i due, che nelle prossime udienze si confronteranno davanti al collegio giudicante. Perché secondo Ardita, rappresentato dall’avvocato Fabio Repici, Davigo avrebbe agito con «dolo» con il fine «di screditare» il suo ruolo istituzionale «di consigliere del Csm» e la sua «immagine personale e professionale», attraverso «una pervicace operazione mirata di discredito, cercando così perfino di condizionarne il ruolo di consigliere del Csm e addirittura arrivando a condizionare l’intero Csm». Il presidente Spanò ha ammesso tutti i testi citati da accusa, parte civile e difesa, circa trenta persone. Si partirà il 24 maggio, con la testimonianza di Storari, assolto in abbreviato dall’accusa di rivelazione del segreto d’ufficio perché il fatto non costituisce reato. Assoluzione però impugnata dalla procura, secondo cui anche nel caso in cui si volesse ritenere che il Csm fosse deputato a conoscere quanto stava accadendo in procura a Milano con i verbali di Amara, «certamente non lo era Davigo, men che meno nel salotto di casa sua, e non può credersi che un errore di diritto su tali circostanze possa ritenersi “inevitabile”, specie per un soggetto che interpreta ed applica le norme per funzione e professione». Dopo Storari, il 28 giugno, sarà la volta del vicepresidente del Csm David Ermini e dei consiglieri Giuseppe Marra, Ilaria Pepe e Giuseppe Cascini. Tra le persone chiamate a testimoniare anche il procuratore generale Salvi e l’ex procuratore di Milano Francesco Greco, i pm meneghini Laura Pedio e Fabio De Pasquale (ritenuto però dall’accusa «lontano dai fatti») e il magistrato Alessandra Dolci. Ma ci saranno anche il primo presidente Curzio, l’ex segretaria di Davigo Marcella Contrafatto (sotto inchiesta a Roma per la diffusione dei verbali alla stampa), Morra e i due giornalisti destinatari del plico con i verbali, poi consegnati in procura. L’elenco, ha però chiarito Spanò, potrà essere sfoltito nel corso del processo: «Vedremo di volta in volta la rilevanza. A noi - ha spiegato il giudice - piace che la prova si formi in dibattimento purché non si esca dal processo. Raccomando alle parti di non avere animosità». Ed è a questo punto che Davigo ha preso la parola, ribadendo di voler chiarire «una vicenda che reputo molto interessante per l’opinione pubblica». «Non contesto che Storari mi abbia consegnato una chiavetta - ha spiegato -, l’ho detto anche io. Ma non è per questo che lo abbiamo citato, ma per altra ragione. Non può essere vero che io abbia istigato Storari e comunque non potevo farlo prima di sapere cosa mi avrebbe detto». Un modo per dire che non ha usato il pm milanese per screditare Ardita, ma anche per evidenziare il problema della competenza territoriale, che spetterebbe a Roma, secondo Davigo, luogo in cui si sarebbe eventualmente consumato il reato con la diffusione dei verbali ai membri del Csm. Ma anche Brescia, per l’ex pm di Mani Pulite, va bene: l’importante è avere un giudice a cui dire «la verità». Se non fosse che nel rilasciare dichiarazioni spontanee Davigo è andato oltre, chiedendo chiarimenti al pm sul capo d’imputazione: «Ho diritto di sapere perché condotte identiche» vengono valutate diversamente. Ovvero: «Mi viene contestata come rivelazione di segreto d’ufficio l’aver informato il vicepresidente del Csm ma non mi viene contestato di aver detto le stesse cose al primo presidente della Corte di Cassazione: perché è lecito se lo dico a Curzio ed è illecito se lo dico a Ermini? Questo il pubblico ministero avrebbe il dovere di spiegarmelo». Un’affermazione di troppo, che ha spinto Spanò a fermare Davigo, invitandolo a rispettare i ruoli: «Si cali nella parte dell’imputato».